Il Predator spegne le sue prime 15 candeline, trascinandosi dietro una scia di morti innocenti e polemiche sul suo impiego. Un’operazione di chirurgia bellica, lontana dalla polvere del campo di battaglia. Così era stato salutato l’arrivo del drone nei conflitti. Un aereo telecomandato che esegue gli ordini da migliaia di chilometri di distanza. Ma gli aquiloni della morte si sono rivelati di difficile gestione per le alte sfere dell’esercito Usa e per l’amministrazione Obama, che più di tutte le precedenti li ha utilizzati.
L’arma “risk-free”, però, viene inaugurata in azione durante l’amministrazione di George W. Bush. Il 4 febbraio del 2002 è il primo giorno in cui un aereo senza pilota delle forze armate Usa effettua un’operazione uccidendo tre persone. L’attacco fu programmato ed eseguito nella provincia di Paktia in Afghanistan, nei pressi della città di Khost, a pochi chilometri dal confine col Pakistan.
Obiettivo dell’incursione era uccidere Osama Bin Laden, il presunto responsabile dell’attacco al World Trade Center di un anno prima. Ma l’azione, avallata da tutti i vertici del Pentagono, fu un insuccesso totale. Fra le tre vittime non c’era Osama Bin Laden, ma tre uomini che fin dal principio avevano dato impressione di essere intenti ad armeggiare con dei rottami, ma non di essere dei terroristi.
Sebbene neanche un mese prima l’obiettivo numero uno fosse stato già dichiarato non raggiunto dai portavoce del Pentagono, lo Stato Maggiore continuò a sostenere che l’attacco era stato “legittimato”. Alla fine, chi aveva condotto l’operazione si trincerò dietro al fatto che nei pressi di Khost c’era una vecchia base Taliban dove negli anni Ottanta avevano avuto luogo importanti battaglie fra i combattenti afghani e l’esercito sovietico. Un elemento, questo, che diede da pensare che i tre morti a seguito del lancio del missile Hellfire fossero ragionevolmente terroristi.
La prima uscita del drone in combattimento non aveva certo dato l’impressione di risolvere con precisione e umanità il problema delle vittime civili, anzi aveva tolto umanità laddove più sarebbe servita: la gestione delle zone di crisi.
Una guerra sporca in fin dei conti, quella dei cieli di Afghanistan e Pakistan, le aree dove maggiormente sono stati impiegati i Predator, ma pur sempre meno complessa da gestire sul fonte interno, dove le associazioni dei reduci e dei familiari dei soldati osteggiano duramente ogni intervento in aree di crisi.
Ma il costo, non solo umano, di questi droni qual è? Secondo cablaggi acquisiti e pubblicati da Wikileaks le cifre non sono rintracciabili. Il codice Nsn (il Nato Stock Number) dei modelli Predator non è disponibile nell’elenco dei database. Ma se parliamo di Afghanistan, il portale creato da Julian Assange ritiene che l’equipaggiamento ne prevedesse “almeno sette” in dotazione. Con una spesa per l’acquisto molto alta, sebbene non esattamente quantificabile.
Ma come funzionano i droni? Il Predator, il modello più usato, è nient’altro che un aereo telecomandato. L’asetticità della sua azione è caratterizzata infatti dal fatto che sia sprovvisto di pilota e vengano comandati a distanza. Uno dei punti di comando dove ragazzi dai 25 ai 30 anni diventano “killer a distanza” si trova in Nevada, nella base aeronautica di Creech. I piloti sono spesso reclutati fra appassionati di videogiochi, i cosiddetti “gamers”. I giovani guidatori di queste macchine di morte non vedono alcuna faccia, solo sagome. Si punta e si clicca.
Bush ha cominciato, ma Obama ha proseguito nei suoi due mandati. E la guerra dei droni sembra mettere d’accordo conservatori e progressisti nonostante le vittime innocenti siano indistinguibili dai profili da colpire. Il vice presidente dell’era di George W Bush si è espresso a favore dell’uso dei droni in area mediorientale, definendo la scelta di Obama come “una buona politica”. A tutto ciò ha messo un argine il presidente uscente nel luglio scorso, nell’ultimo semestre del suo incarico alla Casa Bianca, diffondendo le prime cifre governative sulle vittime dei droni. E il fatto che l’uscita sia stata fatta a luglio, in un periodo di “bassa marea” dal punto di vista dell’attenzione mediatica ha comunque suscitato polemiche in Usa.
Si tratta infatti di stime che, accusano le ong, sarebbero anche eccessivamente clementi con il governo americano. Per la Casa Bianca i morti oscillerebbero fra i 64 e i 116, prendendo in considerazione gli anni dal 2009 al 2015.
Per altre fonti non ufficiali i morti sarebbero addirittura oltre 200, considerando che in sette anni sono state 473 le operazioni che sono state portate a termine dal Pentagono.
Gli “effetti collaterali”, così come vengono catalogate le morti di innocenti in simili azioni, sembrerebbero essere molti di più.
I teatri operativi non sono soltanto quelli di guerra ufficiale. Sono altri i paesi dove i predator agiscono: Yemen, Somalia e Libia sono paesi non in guerra con gli Usa, ma abbondanti di obiettivi sensibili. E sembrerebbe che le basi di lancio, ora vengono usate principalmente quelle del Mediterraneo in Italia e Turchia, aumenteranno. Prossimi scenari potrebbero aprirsi nel Corno D’Africa e nella Penisola Arabica visto il crescere di rami dell’Isis e di Al Quaeda.
Il Pakistan resta lo scenario operativo più complesso fra quelli citati. Il paese infatti è alleato della coalizione che combatte il terrorismo e non è in guerra con gli Usa. In dieci anni, dal 2004 al 2014, le operazioni sono state 275. La percentuale di vittime civili è andata scendendo dal 69% del triennio 2004-2007 al 3% del 2013.
Ma perché se il Pakistan non è in guerra l’uso dei droni viene permesso? Una dichiarazione dell’esponente massimo del governo pakistano chiarisce lo scenario. Il 23 agosto 2008, il primo ministro Gilani disse all’ambasciatore americano Anne Patterson: “Non mi interessa cosa fanno fintanto che uccidono le persone giuste”.
Un territorio di difficile controllo quello del Pakistan, popolato di contraddizioni e alleanze liquide che si frantumano e si costituiscono alla velocità del passaggio in cielo di un Predator. “Giochi di guerra” che sono costati la vita anche a un cooperante italiano, il palermitano Giovanni Lo Porto, morto il 15 gennaio del 2015. Per le statistiche anche lui rientrerà negli “effetti collaterali”.