Kosovo: when will yet another European proxy-war? In queste ultime settimane la stampa internazionale è stata polarizzata dalle violenti sommosse che hanno scosso la Francia e dal corposo susseguirsi di eventi che hanno caratterizzato la ben poco felice controffensiva ucraina ed il ‘corposo’ insieme di manovre poste in essere dal Governo di Kiev per cercare di allargare il conflitto e di posizionarsi nel migliore dei modi in vista del vertice NATO del 10 luglio.
Certamente quanto emerso circa:
- l’attentato al Nord Stream 1&2, il millantato di matrice russa lancio di un missile ucraino verso il territorio polacco,
- il coinvolgimento nell’attacco condotto (spacciandolo all’Occidente come di matrice russa per fini propagandistici a sostegno della tesi dell’esistenza di contrasti interni all’establishment della Federazione) con un camion imbottito di esplosivo al ponte di Kerch (in Crimea) come reso noto pure dall’ANSA il 9 luglio 2023
- le fasulle accuse a Mosca riguardanti la presunta intenzione del Cremlino di voler provocare un incidente nucleare alla centrale di Zaporizhzhia
- il ritrovamento nelle mani dei rivoltosi francesi di armi di sospetta –poiché non confermata– provenienza Ucraina facenti parte delle forniture occidentali all’esercito di Kiev che, comunque sia, è servito a riportare alla luce i pesanti sospetti riguardanti il loro parziale uso per alimentare il traffico illegale di armi grazie a comportamenti sicuramente non all’insegna della difesa dei ‘valori occidentali’ posti in essere da appartenenti alle FFAA ucraine e, da ultimo,
- l’annullamento delle elezioni presidenziali di questo anno deciso recentemente da Volodimyr Zelensky (di sicuro con il placet statunitense ed europeo) per evidenti ragioni che poco o nulla hanno a che vedere con gli interessi del popolo Ucraino e molto con la possibilità di poter continuare a parlare di incondizionata tenuta del consenso popolare,
non costituiscono altrettanti elementi che possano in qualche modo influenzare positivamente i membri dubbiosi della NATO e la stessa opinione pubblica euro-americana nel senso desiderato dalla leadership ucraina e da quella degli Stati baltici in seno alla NATO, cui fanno sporadicamente da cassa di risonanza giornalisti come Simon Tisdall, che il 9 Luglio 2023, sull’ottimo The Guardian, ha pubblicato un appassionato proclama interventista intitolato “Defeat for Ukraine would be a global disaster. Nato must finally step in to stop Russia”.
Tali fatti, di indubbia importanza e rilevanza, hanno fatto passare in secondo piano quanto sta accadendo in un’altra area estremamente calda del continente europeo, quella dei Balcani, in cui il rischio che si riaccenda il conflitto tra Serbia e Kosovo è quanto mai elevato essendo il più probabile teatro di una novella Proxy War tra gli Stati Uniti e la NATO (questa volta in un contesto reso caldo fin dai tempi della Guerra del Kosovo anche, ma forse faremmo meglio a dire soprattutto, dalle pesanti ingerenze europee, in primo luogo della Germania e poi degli USA) –e la Federazione Russa, tradizionale alleata della Serbia nonostante che quest’ultima sia sempre più orientata a preferire una adesione all’Occidente a partire dall’ingresso nell’Unione Europea.
Un’aspirazione che, in questo contesto, ‘qualcuno’, al momento, potrebbe ritenere più utile boicottare per poter aprire un secondo fronte auspicabilmente foriero di un alleggerimento della pressione russa sul fronte ucraino, nonché potenzialmente idoneo a forzare la mano, a creare il casus belli necessario per poter giungere ad un allargamento del conflitto nel senso caldeggiato da Biden e Stoltenberg (tutto all’insegna di un utilitaristico “armiamoci e partite”, approfittando della presenza sul terreno di consistenti truppe NATO della KFOR che qualora attaccate…
Il sospetto è quanto mai legittimo come testimoniato dall’invio in Kosovo, nonostante sia basato nel capo denominato “Sultan Murat” a Prizren, nel Kosovo sud-occidentale, di un contingente turco atto a rinforzare la KFOR ivi operante: una mossa che –alla luce della politica di Ankara nello scacchiere del Mediterraneo Orientale– sa più di provocazione ben calibrata che di una fattiva risposta alle richieste di Belgrado di un intervento atto a pacificare l’area nel senso previsto dalla Risoluzione ONU n. 1244/1999 istitutiva di quella KFOR stessa e di quella correlata struttura civile che hanno sin qui reso il Kosovo un vero e proprio Protettorato Occidentale permanente ed autolegittimante, da diverso tempo inviso perfino a molti dirigenti Kosovari un tempo portati in palmo di mano dall’Occidente (come l’ex Presidente kosovaro Hashim Thaçi) che li ha ripetutamente protetti e coperti nonostante fossero stati a più riprese accusati di pesanti crimini di guerra –e che solo in tempi recenti (fine del 2020) si sono visti costretti a dimettersi in quanto, ad oltre 20 anni di distanza dai fatti ascrittigli, finalmente, ma stranamente solo ora incriminati dal Tribunale Speciale dell’Aia.
Il sospetto che ciò sia la diretta conseguenza del manifestato desiderio di mettere finalmente alla porta la KFOR credo sia alquanto accreditabile soprattutto a causa del fatto che difficilmente, in questo caso, sarebbe ulteriormente giustificabile la presenza in Kosovo di Camp Bondsteel, ossia della più grande base militare americana costruita all’estero dai tempi del Vietnam, una base localizzata vicino ad oleodotti e corridoi energetici di vitale importanza, all’epoca ancora in costruzione, come ad esempio l’oleodotto trans-balcanico, sponsorizzato dagli Stati Uniti.
Il nome di questa base è piuttosto interessante per tutto quanto intellegibile anche dal solo titolo di un articolo di Paul Stuart del 29 aprile 2002 intitolato “Camp Bondsteel and America’s plans to control Caspian oil”.
L’articolo citato, tradotto a cura della Caritas –che lo aveva inserito nella sua settimanale rassegna stampa sui Balcani– e successivamente ripreso dall’ “Osservatorio balcani e caucaso transeuropa”, che il 16 Luglio 2002 lo ha pubblicato sulla propria pagina web con il titolo “Kosovo: Camp Bondsteel ed il petrolio Del Mar Caspio”, merita di essere preso in considerazione con particolare attenzione in quanto non solo ha messo in rilievo per tempo quale sarebbe potuto essere, nei futuri piani geostrategici statunitensi, il ruolo dell’enorme base testè citata, ma anche e soprattutto perché consente di capire quali interessi hanno mosso gli Stati Uniti a fare ciò che hanno fatto nella regione balcanica e, a quanto pare, si accingono a fare e provocare per interposta persona nel Kosovo di oggi.
Quest’ultima affermazione si giustifica considerando che per quello che concerne la costruzione della base di Bondsteel “La pianificazione degli ingegneri per le operazioni in Kosovo è iniziata mesi prima che la prima bomba fosse sganciata”: e questa dichiarazione è degna della massima considerazione poiché contenuta in un singolare articolo pubblicato il 1º Aprile 2000 dal Col. Robert L. McClure, su “Engineer: The Professional Bulletin for Army Engineers” (“Ingegnere: il bollettino professionale per gli ingegneri dell’Esercito”) con il titolo “The Engineer Regiment in Kosovo” .
Come ho scritto in un dossier (ancora in fase di stesura e di prossima pubblicazione) sulle dinamiche che attualmente sono alla base delle tensioni balcaniche, in generale, –ed in particolar modo alla base di quelle intestine ancora presenti nel Kosovo dei nostri giorni–, è da queste che occorre partire per comprendere quali siano stati i punti di appoggio, i pretesti su cui le Grandi Potenze hanno fatto leva nel tempo per giustificare, laddove necessario farlo, il proprio intervento nell’intera regione con finalità non di tutela di questa o quella componente etnico-religiosa, bensì geopoliticamente egemoniche.
A tale proposito vale la pena considerare le caratteristiche religiose della popolazione qui dimorante che ad oggi vede la predominanza della fede islamica hanefita, una delle quattro scuole coraniche sunnite e per la precisione quella meno ancorata alle interpretazioni letterali dei testi sacri rispetto alla wahhabista, anch’essa diffusa nella regione, caratterizzata da una maggiore inclinazione a dare del Corano una interpretazione sicuramente più rigida.
Le autorità locali, nonostante la predominanza della religione musulmana, avrebbero cercato, a quanto pare, di disinnescare i possibili fattori di ‘disagio’ interni con il sottolineare perfino nella Costituzione (si vedano gli Art. 1 e 2) la laicità della Repubblica del Kosovo ed il fatto che lo Stato è Stato di tutti i suoi cittadini a prescindere dalla religione professata e dall’etnia di riferimento: non sarebbe, infatti, casuale che nella bandiera nazionale siano presenti sei stelle, una per ogni componente etnico-religiosa (o ritenuta tale, come nel caso dei Bosniaci assimilati ai gruppi Rom e Ashkali).
Letta alla luce di queste considerazioni, il fatto che nel testo costituzionale si parli anche di maggioranze e minoranze, non dovrebbe fuorviarci poiché la Costituzione rappresenterebbe il concreto tentativo di trattare la popolazione prescindendo da qualsiasi elemento separativo che possa fungere da pretesto per alimentare tensioni e scontri, in primis con i Serbi kosovari che la secessione della provincia ha proditoriamente separato dalla madre patria grazie al supporto fattivo offerto dagli Occidentali che, con il loro intervento militare, un intervento che si configura come una vera e propria aggressione alla Serbia, hanno puntato al loro insediamento nell’area non tanto per pacificarla, quanto piuttosto per giustificare la loro stabile permanenza nella strategica regione balcanica a partire dalla Guerra del 1998-1999 interpretando il ruolo dei peacekeepers secondo un vecchio, oramai, trito e ritrito copione che va in scena da decenni ovunque nel mondo –e qui con maggiore successo che altrove– per via dell’atavico odio serpeggiante.
Quell’odio che ai primi di dicembre 2022, dati i precedenti, ha visto il ben pilotato riacutizzarsi delle tensioni tra Serbia e Kosovo che ha motivato ad arte i Serbi-kosovari ad erigere barricate sulle strade principali del nord del Paese per protestare contro l’arresto di un ex ufficiale di polizia serbo-kosovaro il giorno dopo che il Presidente serbo Aleksandar Vucic aveva dichiarato che avrebbe chiesto alla forza di pace guidata dalla NATO di consentire il dispiegamento di un contingente militare composto da 1.000 militari serbi nel nord del Kosovo per proteggere la comunità serba ivi dimorante dalle molestie di cui la stessa, stando a quanto da lui asserito, risulterebbe essere oggetto.
La richiesta di Belgrado che, come era ovvio attendersi, è stata di fatto giudicata una provocazione ha dato all’alquanto palesemente ‘smemorato’ Ministro degli Esteri tedesco, Annalena Baerbock, la possibilità di affermare che, contrariamente al Governo di Pristina che a suo dire avrebbe cercato di abbassare la tensione rinviando le elezioni municipali locali fortemente osteggiate dai Serbi-kosovari, “La recente retorica dalla Serbia ha fatto il contrario” in quanto “Suggerire l’invio di forze serbe in Kosovo è del tutto inaccettabile. Così sono gli ultimi attacchi a EULEX”. È alquanto interessante notare come nessun giornale abbia sollevato la questione della scarsa memoria anche degli Stati Uniti che sono da sempre a perfetta conoscenza del perché e del per come l’odio intercomunitario sia stato di fatto ripristinato di proposito celandosi dietro le narrazioni di comodo di storie e conflitti vecchi di secoli.
Non resta, a questo punto, che attendere gli eventi, possibilmente evitando di stupirsi eccessivamente qualora il sangue dovesse riprendere a scorrere copiosamente e l’indignazione delle cancellerie occidentali farsi per questo ‘vibrante e sentita’ secondo copione.