Un video-messaggio del 20 febbraio scorso, in cui i copti vengono descritti da Daesh come la “preda preferita”, è stato l’esordio di una serie di brutali omicidi che stanno insanguinando il nord del Sinai, in Egitto. Sono infatti 7 le vittime in sole due settimane ad essere state brutalmente uccise nell’area settentrionale celebre per aver ospitato l’esodo ebraico guidato da Mosè.
L’ultima esecuzione ha avuto luogo ad Al Arish a nord della penisola del Sinai egiziano. È lì che gli jihadisti hanno inseguito il proprietario di un negozio di sanitari fino al tetto della sua attività, dove abitava con la sua famiglia. Una volta raggiunto lo hanno sgozzato e hanno dato fuoco alla sua abitazione, dalla quale i familiari di Kamil Abu Romani, il nome del cristiano ucciso, sono riusciti a fuggire in tempo. Romani è l’ultimo di una scia di sangue che ha visto altri 6 cristiani uccisi in 15 giorni.
In una scuola di Al Arish si è verificato un altro episodio cruento, in cui hanno perso la vita un padre, di 65 anni, e suo figlio di vent’anni più giovane. Proprio la famiglia, che ora si trova in un ostello protetta dalle autorità, ricorda il momento della morte del 45enne. Sembrerebbe che questi avesse sentito bussare alla porta, si sarebbe alzato per aprire e una volta aperta la porta si sarebbe trovato di fronte i suoi assalitori, armati e mascherati. Dopo averlo spinto dentro casa lo avrebbero ucciso con una pallottola a bruciapelo che avrebbe colpito il più giovane in testa. La madre, in preda alla rabbia e al dolore, sarebbe stata portata fuori mentre gli jihadisti crivellavano di colpi il marito. Padre e figlio sarebbero stati poi trovati dietro una scuola ad Al Arish.
I corpi del padre Saad Hakim Hanna, 65 anni, e del figlio Medhat sono stati ritrovati proprio lì nei pressi di quella scuola che sarebbe diventata la loro tomba.
Sugli esecutori materiali delle stragi, che sembrano seguire un rituale, il governo sta indagando. Il gruppo terroristico Wilyat Sinai è attivo nel nord della penisola da tempo. Più noto come Ansar Beit al Maqdis, la frangia estremista ha cambiato nome nel novembre 2014, giurando fedeltà al Califfato guidato da Al Baghdadi. Da allora la polizia locale è praticamente in guerra con questa frangia estremista.
Il governo di Al Sisi ha prolungato il coprifuoco ripetutamente nella zona, ma la conformazione del territorio e le montagne che lo costituiscono rendono difficile il compito della polizia egiziana. Esistono però delle correlazioni fra gli omicidi verificatisi in queste due settimane e la storia recentissima dell’Egitto del generale Al Sisi.
Al messaggio lanciato dagli uomini di Al Baghdadi e la successiva mattanza copta vanno infatti ricollegati altri episodi. Soltanto a dicembre, l’assalto alla chiesa cristiano-copta di San Pietro e Paolo al Cairo costò la vita a 25 persone, furono una trentina invece i feriti. La rivendicazione di Daesh arrivò dopo pochi giorni.
Poco più di due anni fa invece, nel febbraio 2015, il tragico ratto dei copti. Ben 21 uomini, gran parte di questi provenienti dal governatorato egizio di Minya, furono rapiti dall’Isis a Sirte, in Libia, per poi essere sgozzati.
Divennero celebri le immagini dell’esecuzione fatte circolare dagli uomini del Califfato. Una lunga fila di tute arancioni inginocchiate sulla battigia con alle ciascuno il suo carnefice, vestito di nero. Di lì a poco quei 21 cristiani avrebbero perso la vita su quella spiaggia.
Il paese governato dal generale Al Sisi vive un momento di forte frizione all’interno delle comunità religiose che lo abitano. La mano dura del graduato dell’esercito ha spazzato via i Fratelli Musulmani, che avevano portato alla testa del paese il loro leader, Morsi. La fratellanza, nata nel 1928, aveva avuto alti e bassi con Il Cairo. A fasi in cui venivano banditi, perché troppo destabilizzanti per l’ordine pubblico, si alternarono fasi legalitarie, come quelle aperte da Mubarak che scavò una nicchia nell’arco politico egiziano per cercare di trovare uno sfogo di rappresentanza per i Fratelli.
Ma il pugno duro dell’esercito e la repressione che affogò nel sangue i tentativi della fratellanza di alzare la testa hanno ora generato un moto di vendetta nella grande internazionale integralista del Califfato. Punire gli infedeli è il primo passo, soprattutto se questi sono vicini al governo di Al Sisi.
I copti infatti, storica comunità religiosa egiziana che da sola costituisce il 10% della popolazione e la più grande comunità cristiana in Medio Oriente, avrebbero inizialmente appoggiato proprio quel governo che, secondo gli jihadisti, ha le mani macchiate del sangue della fratellanza musulmana. Lo scontro si combatte quindi sul piano identitario e quello dell’equilibrio politico.