Dopo 7 anni di guerra lo Stato islamico sembra essere finalmente con le spalle al muro. La moschea simbolo dell’Isis è stato distrutta a Mosul. La stessa dove il 29 giugno del 2014 Abu Bakr al-Baghdadi ha proclamato l’inizio del Califfato. Dopo i primi sospetti che ci fosse la mano dei miliziani stessi, ormai con le spalle al muro, adesso è sempre più insistente la voce che vedrebbe gli Stati Uniti responsabile del bombardamento di Al Nuri.
L’offensiva su Raqqa avanza sempre di più, all’interno dei resti di quella che fu la capitale Isis, mentre da Mosca giunge la rivendicazione dell’uccisione di Abu Bakr al-Baghdadi, non confermata tuttavia da altre fonti. Ma poco importa: il progetto di costruire un Califfato, avendo lo Stato islamico perso gran parte dei territori precedentemente controllati, sembra ormai definitivamente tramontato, con o senza la conferma della morte del califfo al-Baghdadi, e questo fa inevitabilmente perdere di importanza e influenza un progetto che traeva la propria forza proprio dall’utopistico progetto di creare uno Stato sunnita che potesse contrastare le potenze sciite della regione (Iran in testa, insieme al regime del dittatore siriano Bashar al-Assad).
Ma è proprio il tramonto sempre più vicino dello Stato islamico sullo scacchiere mediorientale che paradossalmente espone l’area a un altro tipo di conflitto. I protagonisti della lotta all’Isis, infatti, iniziano a pensare al dopo, e tutto sembra essere nelle mani di Washington (situazione non nuova questa, in verità), che ha sostanzialmente di fronte due scelte: schierarsi dalla parte di Bashar al-Assad, appoggiato da Mosca e Teheran, oppure optare per lo scontro aperto. La questione era nell’aria da tempo, ma il fatto che gli Stati Uniti si troveranno prestissimo (se non lo sono già) nella situazione in cui saranno costretti a fare una scelta è stato reso evidente a tutti dall’abbattimento di un jet dell’aviazione siriana (fedele al regime di Assad) da parte della coalizione a guida americana. Azione questa che ha scatenato una durissima reazione da parte del Cremlino, che ha minacciato l’abbattimento di qualsiasi vettore aereo non autorizzato sorpreso a volare a ovest del fiume Eufrate.
La questione potrebbe sembrare priva di apparenti conseguenze, ma in realtà getta le basi per alcune importanti implicazioni
Di certo c’è il mutato atteggiamento dell’amministrazione Trump nei confronti del regime di Assad. Il 18 aprile infatti un caccia statunitense ha abbattuto un aereo dell’aviazione siriana, fedele al regime, che aveva appena bombardato le forze appartenenti alla coalizione guidata dallo YPG, la milizia curda. È il quarto scontro diretto in meno di un mese tra le forze americane e quelle siriane, segno evidente del cambio di tendenza rispetto all’amministrazione Obama, dove l’ingaggio di obiettivi fedeli al regime da parte statunitensi non era mai avvenuto, e il supporto alle forze ribelli da parte di Washington era sempre stato indiretto.
Dopo quest’ultimo attacco però la posizione russa si è ulteriormente indurita, annunciando la sospensione del memorandum stipulato con la coalizione a guida americana per la prevenzione degli incidenti e la sicurezza dei voli militari, annunciando, come detto, che “qualsiasi oggetto aereo” sorpreso a volare ad ovest dell’Eufrate sarà considerato un bersaglio.
A terra invece le forze della coalizione curdo-siriana, appoggiate dagli americani, attaccano ormai da tre lati quella che fu la capitale dello Stato Islamico, Raqqa, e in alcuni punti sono riusciti ad arrivare a posizioni fondamentali per il controllo della città, come i quartieri del centro. Gli Stati Uniti hanno assicurato che, una volta conquistata la roccaforte Isis, essa sarà messa nelle mani di amministratori locali, ma questo non sembra rassicurare le forze maggiormente interessate alla questione, quali lo stesso governo di Damasco, i russi e i loro alleati iraniani, ma anche la Turchia di Erdogan, in qualità di spettatore interessato affinché le forze curde non guadagnino così tanta influenza da arrivare a richiedere la costituzione di uno stato nazionale etnico ai confini anatolici, ipotesi che il governo di Ankara ha sempre osteggiato con ogni mezzo a sua disposizione. La diffidenza di questi attori nei confronti del fattore curdo, molto probabilmente, renderà ancor più difficile la gestione del post-Califfato nell’area, andando a riprodurre una situazione già vista in altri momenti storici: due parti contrapposte, una spalleggiata da Washington, l’altra appoggiata da Mosca. E in nessun caso è mai andata a finire troppo bene.
A conferma di ciò, il 19 giugno l’Osservatorio siriano per i diritti umani riporta la notizia di scontri diretti tra le forze curde (appoggiate dagli americani) e l’esercito regolare siriano, fedele al regime di Damasco e supportato dai russi. Segno che, con l’avvicinarsi della sconfitta dello Stato Islamico, si avvicina sempre di più anche la resa dei conti tra forze ribelli e curde ed esercito regolare fedele al regime del dittatore Assad. Lo scontro da cui tutto era iniziato, 7 anni fa.