Com’era largamente prevedibile Hassan Rohani succede a se stesso alla guida del governo dell’Iran, in un turno di elezioni contrassegnato, come da tradizione, da una cospicua affluenza da parte del corpo elettorale. Circa 15 punti percentuali hanno distanziato i due principali concorrenti, il presidente uscente e il candidato del fronte conservatore Ebrahim Raisi confermandosi così la tradizione che vede rarissima l’ipotesi del ricorso al ballottaggio.
Ben ventisei milioni di elettori hanno partecipato a quello che, nell’area medio-orientale, è certamente il più stabile sistema politico il cui processo elettorale, nonostante mille criticità e la costante ed abnorme influenza del clero, rimane il più vicino agli standard occidentali. Il riformista Rohani si troverà dunque, dopo la seconda ed ultima investitura, a dover proseguire il corposo programma di riforme avviato durante il suo primo mandato con notevoli difficoltà aggiuntive rispetto a quattro anni fa.
Alla Casa Bianca l’inquilino, come è noto, è cambiato e il clima di distensione della stagione Obama, seguito soprattutto ai notevoli progressi sul controllo dell’arsenale nucleare, non è dei migliori. Pur in presenza di una autentica svolta, specialmente nei rapporti commerciali con le potenze occidentali, in particolare quelle europee, l’Iran rimane ancora una spina nel fianco di molte amministrazioni che non hanno intenzione di compromettersi con l’ibrido e sui generis regime di Teheran che, tuttavia, ha impresso un notevole cambiamento rispetto alle tensioni diplomatiche che avevano contraddistinto il doppio mandato di Mahmud Ahmadinejad, escluso, obtorto collo, da questa competizione elettorale.
La sfida di Rohani è ora quella di confermare i progressi, lenti ma costanti, dei suoi primi anni di guida del Paese, pur in presenza di un equilibrio geopolitico senz’altro meno favorevole rispetto a quello di un tempo. Ma gli avversari del presidente non saranno solo al di fuori dei confini nazionali: questa netta riconferma, infatti, pone il capo dello Stato come unica reale alternativa al partito dei conservatori. Una frattura evidente tra il nord, ancora massicciamente schierato con il presidente uscente grazie all’appoggio del mondo dell’imprenditoria, delle professioni e del mondo “laico” e il sud del paese, più povero e decisamente più incline alle sirene populiste che pure in Iran si stanno ritagliando uno spazio sempre maggiore. Un equilibrio, questo, mai come oggi simile a quello emergente nelle democrazie occidentali le quali, dopo Brexit e la vittoria di Trump, sembrano essersi avviate verso la vittoria dei fronti populisti e sovranisti.