Lo scontro in atto tra Iran e Israele non può esser letto solamente e circoscrittamente sulla scorta delle recenti occorrenze militari che li vedono contrapposti a partire dall’attacco delle forze armate dello Stato ebraico sul plesso diplomatico iraniano a Damasco del 1 aprile 2024 e in base esclusivamente a un principio dialettico azione/ reazione, che sembrerebbe consentire la comprensione tanto del bombardamento israeliano dell’edificio consolare iraniano quanto della rappresaglia ‘dronica’ e missilistica iraniana su Israele. Sempre più incalzante, infatti, si fa l’opportunità, se non proprio la necessità, di un’interpretazione a più ampio spettro esegetico, in cui sia possibile cogliere quasi un canovaccio ben preciso che questi due nodali attori dello scenario mediorientale pare stiano seguendo pedissequamente, in una sorta di ‘gioco teatrale geopolitico’, in cui siano ancora una volta ribaditi certi ruoli e posizionamenti strategici, oltre che realizzata la verifica di alcune alleanze trans-regionali/trans-nazionali e la loro tenuta in condizioni di ‘razionale’ e ‘controllato’ stress conflittuale.
In primo luogo Israele, dopo aver più volte ribadito che dietro l’attacco del 7 ottobre 2023 vi fosse una corposa regia iraniana e il supporto economico e bellico della medesima Repubblica Islamica, non poteva minimamente esimersi dal colpire, in qualche modo, un obiettivo iraniano, fosse anche stato in sedi ‘esterne’ ma tuttavia giuridicamente ‘interne’ alla sovranità dello Stato iraniano o comunque in stretta relazione e simbiosi con i progetti destabilizzativi di quest’ultimo. Non avesse proceduto in tal senso, avrebbe sia dimostrato la sua incapacità di dare seguito e sviluppo concreti a una precisa analisi di intelligence, diversamente monca e sterile, sia disatteso le aspettative rispetto a un serio e dimostrativo intervento sul campo di quei cittadini israeliani e dei tanti alleati che guardano a Israele come difensore, oltre che del proprio suolo e della sicurezza dei suoi abitanti, dei principi e dei valori occidentali contro una cultura dell’odio e della barbarie, senza confini territoriali e senza limiti in termini di violenza dis-/a-umana.
Gli Stati Uniti, che attraverso i rimbrotti e i proclami di Biden, avevano pubblicamente e sonoramente rimproverato l’azione israeliana in Siria, in quanto aizzatrice di un’immaginabile controffensiva iraniana e ipotetico innesco di un’escalation militare regionale e poi mondiale, non si dimentichi che erano stati essi stessi protagonisti, solo quattro anni or sono, nel 2020, di un attacco militare a un altro capo della Forza Quds dei Guardiani della rivoluzione, ovvero Qassem Soleimani, colpito con un drone all’aeroporto internazionale di Baghdad, insieme a un altro capo militare, Abu Mahdi al-Muhandis, e ciò in risposta, a sua volta, a due attacchi di milizie sciite, entrambi attuati nel dicembre 2019, contro la base aerea americana K-1 di Kirkuk e contro l’ambasciata USA di Bagdad, senza preoccuparsi troppo delle conseguenze e delle ritorsioni militari che eventualmente si sarebbero potute determinare. Per di più Washington, solo il giorno dopo il colpo inferto ai Guardiani, ordinò – per non farsi mancare nulla – l’assassinio del capo delle Brigate Katai’b Hezbollah, Shibl al-Zaydi, insieme al fratello e ad altri sodali, a testimonianza e conferma dell’intenzione di indebolire i bracci armati, istituzionale-endogeno e terroristico-esogeno, della ‘canaglia’ iraniana. Per questo l’intervento ammonitivo del Presidente americano in occasione dell’attacco israeliano a Damasco ha quasi certamente costituito l’osservanza di un copione strategico, se è vero che, non appena partito il contrattacco iraniano sullo Stato ebraico, Biden ha ribadito, immediatamente e senza indugio alcuno, il proprio supporto militare a Netanyahu, confermando l’asse USA-Israele e la sua granitica resistenza all’usura del tempo e della propaganda di qualsiasi colore.
Sull’altro fronte, quello iraniano, forse sarebbe bene associare il lancio di droni e missili contro Israele da parte dell’Iran al contenuto e al tenore del discorso del 3 novembre 2023 da parte di Nasrallah, leader del movimento libanese filo-iraniano Hezbollah, in corrispondenza delle durissime azioni militari israeliane in risposta al pogrom del 7 ottobre. A ben guardare, infatti, le due operazioni, l’una militare, l’altra mediatica, si situano all’interno di una sceneggiatura geopolitica di stampo prettamente iraniano che parla soprattutto di ‘guerra contenuta’, di ‘violenza controllata’, di ‘inasprimento frenato’, insomma di una lotta che si deve combattere a tutti i costi e con tutti i mezzi, per avvalorare (propagandisticamente) il ruolo-guida dell’Iran all’interno della cornice di resistenza islamica allo Stato ebraico e al complesso di valori occidentali che esso rappresenta e veicola nell’area mediorientale, ma senza valicare il punto di non ritorno della guerra totale, pur facendola assaggiare o con le armi della comunicazione terroristica, pubblica ed ecumenica, centrata sul panico e sulla paura di un allargamento irrefrenabile del conflitto e dell’impiego gioco forza dell’atomica, o con quelle bellico-militari, ma utilizzate in un modo che definire ‘gestibile’ da parte del nemico sembra non allontanarsi troppo dalla realtà di fatto. Nel caso del discorso del libanese, amico dell’Iran, Nasrallah, il fatto di non aver dichiarato formalmente guerra a Israele, pur potendolo fare, dato il comportamento giudicato sconsiderato e irresponsabile dello Stato ebraico – indicato, per di più, autoritorsivamente come la principale causa, contraddittoriamente a posteriori, delle violenze subite dai cittadini israeliani per mano di Hamas –, non solo è stato spiegato con la condizione di effettuale belligeranza sul campo da parte di Hezbollah, da sempre nemico di tutti i governi israeliani e dell’idea stessa dell’esistenza di uno Stato ebraico, e con la permanenza di uno stato di allerta anti-ebraico delle sue forze militari in generale, e di quelle sul confine israeliano, in particolare, ma anche con la necessità di una più oculata organizzazione non tanto per affrontare i militari israeliani e i suoi alleati americani, quanto soprattutto per infliggere loro un colpo feroce e definitivo. In pratica, però, questo significava da un lato, confermare la propria costitutiva ostilità nei confronti di Israele e dei suoi associati, ma anche esprimere, sotto le mentite spoglie della ‘guerra verbale’ a tutto tondo, la volontà di un arginamento strategico di una guerra dagli esiti troppo facilmente prevedibili in termini di estensione e di intensione militari. Dunque, Nasrallah, atteso dai suoi e dagli ‘spettatori’ internazionali a far scoppiare ‘giustamente’ una guerra nel quadrante mediorientale, premessa garantita di un troppo assurdamente anelato terzo conflitto mondiale, sollecitata – si sarebbe detto neanche troppo sommessamente – dagli eccessi militari israeliani rispetto, in fondo, a un, per quanto atroce, ‘limitato’ assalto irregolare di Hamas a cittadini inermi, ha comunque gettato via, forse solo temporaneamente, il detonatore di un conflitto allargato, consapevole sia delle implicazioni militari di una chiamata generale alle armi di tale spessore e fattura sia dell’impossibilità di una marcia indietro una volta avviata una macchina bellica del genere. Alla stessa maniera si potrebbe interpretare il modo in cui direttamente l’Iran ha affrontato lo ‘schiaffo di Damasco’, rispondendo, certamente, con le armi, facendo così intendere la sua piena disponibilità a ingaggiare con Israele e con gli Usa un qualsiasi conflitto pluri-laterale, e anche a far presagire che senza alcun dubbio riuscirebbe a far convergere in sé la molteplicità delle sigle militari e para-militari degli Stati e dei movimenti e delle organizzazioni islamico-islamistici, ma impiegando tutto l’apparato bellico dispiegato secondo una formula operativa, sia nelle modalità sia nella tempistica, del tutto e ampiamente amministrabile e governabile, in senso intercettativo e distruttivo, da parte delle forze militari israeliane, così come da altri Paesi vicini allo Stato ebraico, come, per esempio, l’Italia, il cui ministro degli Esteri è stato così gentilmente e opportunamente avvistato, il giorno prima dell’attacco a Israele, che nessun componente delle sue forze armate sarebbe stato minimamente coinvolto nelle operazioni annunciate. In questo modo l’Iran, per un verso, si è mostrato sempre ‘sul pezzo’, pronto a reagire ‘a testa alta’ a qualsiasi ingerenza israeliana (e alleata), salvando la propria reputazione militare intra-regionale, per un altro, ha evidenziato di stare recitando, come Nasrallah, un ruolo di ‘combattente razionale’, che sa bene fin dove sia possibile spingere la propria azione e la soglia dell’attrito militare, rischiando moltissimo, ma non di non poter rischiare più in futuro.
Ma cosa vuol dire tutto questo? Innanzitutto che il quadro geopolitico mediorientale (e mondiale), pur sollecitato in modo notevole da attori in continuo movimento, sta ancora mantenendo pressoché inalterate, o comunque, non alterate al punto da farle deflagrare, certe solidarietà internazionali, a dispetto delle molteplici fenomenologie propagandistiche e delle dinamiche (para-)diplomatiche di segno opposto. In secondo luogo che, nonostante Israele e Iran siano protagonisti provetti sulla ‘scena’ conflittuale mediorientale, capaci di interpretare perfettamente i ruoli che si sono rispettivamente assegnati, insieme ai loro alleati, il ‘teatro’ geopolitico che essi hanno forgiato, ognuno con le armi e le strategie che sono loro propri, è troppo densamente intriso di una realtà di ‘guerra permanente’ – propagandistica ed effettiva –, di cui essi stanno ‘per ora’ attentamente e sapientemente valutando la potenza e la dirompenza, in modo che rimanga confinata entro la giurisdizione da essi disegnata e a un livello di intensità più o mendo moderata, ma che, proprio per questa sua eminente caratteristica denotativa, non assicura di poter essere sempre contenuta e regolata, ovvero non garantisce, a un certo punto e nel caso dell’intervento di variabili inattese, di non potere tradursi in una nuova sceneggiatura bellica, in cui cambino radicalmente i personaggi, saltino del tutto i copioni e compaiano inediti e più pericolosi registi. E, soprattutto, in cui il contenitore geo-spaziale della scena non sia più il teatro regionale mediorientale, ma quello globale internazionale. Insomma un paesaggio da tenere costantemente sotto attenta e severa osservazione, in modo da cogliere per tempo la sintomatologia di quell’eventuale cambio di passo e di paradigma che può seriamente mettere a repentaglio la tenuta della pace mondiale, una finzione, anch’essa, che però conviene ancora mantenere nella forma attualmente esperita, prima e piuttosto che ne assuma una diversa e più drammatica. Ovvero, più palpabilmente onni-conflittuale.
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