Soldati russi prigionieri (POW) chiamano a casa e denunciano la guerra all’Ucraina. Immagini forti che stanno facendo il giro del mondo, dando ampio risalto ad una parte del conflitto: se Kiev, infatti, ha pieno accesso ai media, Mosca (fra imposizioni del Cremlino ed oscuramento dei canali) comunica solo bollettini ufficiali. Davanti ad un telefono, i POW contattano le famiglie avvisandole del loro status di prigionieri di guerra, aggiungendo commenti sulle operazioni in corso: “È sbagliato, stiamo bombardando ospedali ed asili”.
Cose che impressionano, ma in realtà già viste.
Espressione stravolta e segni di botte sul volto, il pilota in copertina entrò di colpo nelle nostre case circa 30 anni fa in una video-registrazione. Erano i tempi di un’altra guerra, la prima dell’epoca apertasi dopo il collasso del sistema dei socialista.
Lui è l’allora Capitano dell’Aeronautica Militare, Maurizio Cocciolone, navigatore di un Panavia Tornado abbattuto dalla contraerea irachena. Fu catturato, insieme comandante del velivolo, Maggiore Gianmarco Bellini, dalla Guardia repubblicana di Saddam Hussein e tenuto prigioniero per 47 lunghi giorni. Nel video, fra paura ed incredulità, Cocciolone spende parole simili a quelle dei POW russi di oggi: “Io credo che l’unico messaggio possa essere rivolto ai miei leader politici. Risolvere un problema con la guerra è sempre folle. Bisogna trovare – ora – una soluzione politica per questa guerra”. Sembra legga il gobbo, ed i segni sul viso lasciano capire che prima della ripresa sia stato picchiato.
Caso simile accadde in Germania circa 20 anni prima. Allora non si trattava di un POW ma di un ufficiale della Bundesmarine convinto dalla moglie tedesco-orientale a disertare (lei era della Stasi). Una sera, sul canale di stato della DDR, in abiti civili e con “imbarazzo” scritto sul volto, l’ufficiale narrò ai telespettatori di un fantomatico piano d’aggressione della NATO. Fantomatico perché l’intera intervista e gli argomenti affrontati erano stati inventati di sana pianta dai servizi segreti orientali.
Nel 1944, il sergente pilota dell’US Army Air Force, Martin James Monti, atterrò con il suo P-38 a Milano, consegnandosi ai tedeschi. Assegnato alle Waffen SS, di cui fu untersturmfhurer (sottotenente), si occupò di trasmissioni radio di propaganda contro il suo stesso paese, gli Usa. Neanche gli andò troppo male, poiché evitò la condanna a morte per tradimento, venendo scarcerato definitivamente nel 1960.
Il ricorso ai prigionieri (o ai disertori come Monti) quale mezzo di propaganda rientra fra i sistema di quelle che, in gergo tecnico, sono chiamate psyops (psychological operations), dottrina bellica antica come la guerra stessa ed evolutasi in parallelo allo sviluppo della tecnologia. A seconda, dunque, dell’orientamento (e delle linee di condotta in guerra) di ciascuna nazione, essa può essere applicata nel rispetto della dignità del nemico dai paesi democratici o ricorrendo a sistemi coercitivi e più biechi negli altri.
Queste parole non vogliono essere un j’accuse ai già martoriati ucraini che, desiderando di entrare nella UE e nella NATO, sanno bene quanto il rispetto della vita e della dignità umana nonché delle regole democratiche siano requisiti essenziali per l’accesso.
Il nostro è, semmai, un invito a leggere tra le righe. Sfatiamo un mito: i soldati sono addestrati a sopravvivere, non a crepare. In caso di cattura, poi, subentrano situazioni, stati d’animo e mentali capaci di generare reazioni diverse da persona a persona. E dei POW russi mostrati nei TG conosciamo solo le parole che ci vengono proposte, non sapendo invece se siano stati loro a chiedere di chiamare casa davanti ad una telecamera e di esprimere, sempre di fronte alla telecamera, il proprio pensiero.
In fondo, che la guerra sia una follia non occorreva ce lo ricordassero i POW russi.