“Qualcosa deve cambiare”. Con queste parole, recentemente, sul web è apparso un post che ha così commentato l’esito della votazione tenutasi all’ONU per valutare l’ammissione della Palestina quale membro a pieno titolo della più importante organizzazione internazionale.
Nello stesso post si legge infatti: “Il 10 maggio, 143 dei 193 Stati membri dell’ONU hanno sostenuto una risoluzione che chiedeva di rendere la Palestina un membro a pieno titolo. Tuttavia, gli Stati Uniti, Israele e sette piccoli Paesi (Argentina, Cechia, Papua Nuova Guinea, Ungheria, Micronesia, Palau e Nauru), che rappresentano solo il 5% della popolazione globale, si sono opposti al resto del pianeta, dicendo no alla misura”. Personalmente ritengo che questo risultato renda conto di ben altro, ovverosia del successo di quella cosa che va sotto il nome di Guerra Cognitiva e nello specifico della Guerra Cognitiva abilmente promossa e condotta da Beijing contro gli Stati Uniti ed i suoi alleati. Il perché di questa affermazione è presto detto, ma prima vale la pena di fare una premessa a dir poco fondamentale.
Della cosiddetta Guerra Cognitiva non parla praticamente nessuno, anche perché si tratta di una tematica relativamente recente che, stando a quanto riportato in un articolo pubblicato da Le Monde il 7 giugno 1999 con il titolo “Les doux penseurs de la cyberguerre”, un chiaro riferimento a John Arquilla e David Ronfeldt, i due padri fondatori di questa nuova strategia militare, tutto avrebbe preso le mosse nel 1992 nel corso di una loro conversazione avvenuta nell’ufficio di David Ronfeldt alla Rand Corporation, un istituto di ricerca specializzato in questioni militari rimasto inattivo dopo la Guerra Fredda, ma all’epoca strettamente legato al Pentagono, alla CIA e all’establishment militare in generale.
Detto per inciso, dei due, ai più ignoti, personaggi or ora menzionati vale citare una frase emblematica la cui valenza appare quanto mai prima d’ora sottolineata e comprovata dai fatti: “Non sarà più chi ha la bomba più grande a prevalere nei conflitti di domani, ma chi racconta la storia migliore…”.
Storicamente il ‘la’ alla conversazione di cui sopra lo avrebbe dato, aneddoticamente parlando, John Arquilla con un semplice quesito posto a Ronfeld circa le sue conoscenza sulla guerra informatica. In precedenza David Ronfeldt si era occupato dell’evoluzione delle società sotto l’influenza delle tecnologie dell’informazione, mentre John Arquilla, ex marine, rifletteva sui problemi della guerra dopo la caduta del Muro di Berlino, entrambi forti di un dottorato in scienze politiche conseguito all’Università di Stanford, nel cuore della Silicon Valley.
Di lì a sette anni l’idea chiave della loro visione strategica basata sul soft power – forte del suo mix di tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in contrapposizione all’hard power, la Realpolitik, che privilegia la forza bruta, in altre parole una filosofia che privilegia la mente piuttosto che la materia, la conoscenza piuttosto che i computer e l’informazione piuttosto che le bombe– aveva fatto sì che i due producessero i libri, gli articoli e i rapporti che pretendevano di porre le basi per la “rivoluzione negli affari militari”, attirando l’attenzione del Pentagono, che da quel momento ha iniziato alacremente a lavorare alla guerra del futuro: una guerra vista come un qualcosa che si veniva a trovare basata su di un pensiero sofisticato che comprende questioni tecnologiche, militari, sociali, etiche e filosofiche in quanto la nuova guerra, la guerra cognitiva, utilizza strategie psicologiche e informatiche volte a influenzare le percezioni, le credenze e i comportamenti delle persone così da influenzare anche i Governi.
Solitamente si ritiene, direi alquanto semplicisticamente, che uno degli aspetti chiave della Guerra Cognitiva sia la mera manipolazione dell’informazione per creare narrazioni che favoriscano gli interessi dell’attaccante, la diffusione di notizie false o distorte attraverso i social media o altri canali di comunicazione, e lo sfruttamento delle vulnerabilità cognitive umane, come la conferma delle proprie convinzioni pregresse (bias di conferma, dove con questa espressione in psicologia si fa riferimento a quel bias cognitivo umano per il quale le persone tendono a muoversi entro un ambito delimitato dalle loro convinzioni acquisite, tentando di ricondurre a tale ambito qualsiasi situazione si trovino a sperimentare).
Solitamente questa strategia presuppone l’uso di mezzi di comunicazione di massa, discorsi pubblici, articoli di opinione, e altri strumenti che cercano di plasmare la percezione pubblica su determinate tematiche mediante i quali gli attaccanti cercano di influenzare le opinioni e le emozioni delle persone per promuovere un’agenda specifica utilizzando gli opportuni canali per mezzo dei quali le informazioni vengono acquisite dai singoli.
Per una maggiore efficacia, per non parlare di una reale concreta efficacia, occorre però avere a disposizione non tanto i canali di diffusione più idonei allo scopo, ma anche le informazioni necessarie sulle caratteristiche dei gruppi di soggetti cui indirizzare i messaggi più idonei a sfruttare il naturale condiviso bias di conferma: un qualcosa che abbiamo visto può essere fatto solo da chi è nella condizione di acquisire i dati necessari ed effettuare le analisi degli stessi per tradurli in strumenti operativamente efficaci: sicché a questo punto sorge spontanea la domanda relativa a chi abbia reso possibile tutto questo visto che trattasi di cose che presuppongono conoscenze e mezzi non certamente alla portata di Hamas, ossia di quella struttura operativa che in tutto quanto accaduto ha assunto il solo ruolo ad essa possibile: quello della bassa manovalanza e fa riguardare l’attacco del 7 ottobre 2023 come la molla che ha fatto scattare la trappola in cui, a quanto pare, sono caduti Netanyahu, il suo Governo, gli Stati Uniti nonché gli alleati di questi ultimi.
Nello specifico la Guerra Cognitiva ha vasti ambiti di utilizzo ed dei casi in cui ha mostrato più che ampiamente i propri effetti li abbiamo registrati nella cosiddetta Primavera Araba, nel caso della Brexit (che ha visto il fattivo coinvolgimento di Cambridge Analytica) e nel caso delle rivolte dei Gilet Gialli che non poco imbarazzo hanno creato alla Francia allorché la stessa si è fatta promotrice di un eccessivo europeismo poco gradito al di fuori dei confini del Vecchio Continente.
Se la cosiddetta disinformazione, ovverosia la deliberata diffusione di notizie false o alterate al fine di confondere, destabilizzare o influenzare l’opinione pubblica occupa un posto di rilievo nel panorama attuale, non di minore importanza risultano essere le operazioni psicologiche in quanto queste mirano a influenzare le percezioni, le emozioni e i comportamenti delle persone attraverso una serie di strategie psicologiche come la diffusione di messaggi persuasivi, la manipolazione delle emozioni, la creazione di divisioni all’interno di gruppi o comunità e la costruzione di un senso di identità collettiva o di appartenenza che adeguatamente sfruttate possono essere un valido strumento di promozione delle cosiddette Proxy Wars.
Le tecnologie digitali hanno amplificato notevolmente l’efficacia della guerra cognitiva per due ragioni principali delle quali:
1) l’una fa riferimento all’uso di algoritmi e piattaforme di social media per mezzo dei quali gli attaccanti possono prendere di mira con estrema precisione perfino i singoli individui con messaggi progettati per influenzare le loro opinioni nonché i loro comportamenti
2) e l’altra fa riferimento alla velocità e quindi alla portata della diffusione dell’informazione online che rendono più facile per gli attaccanti diffondere rapidamente la propaganda e la disinformazione su scala globale.
Tra le altre tecniche utilizzate nella guerra cognitiva occupano un posto di sicuro interesse quelle che includono la manipolazione delle percezioni visive attraverso l’uso di immagini e video manipolati digitalmente, l’uso di influencers e troll per diffondere messaggi specifici, e l’attuazione di operazioni di infiltrazione per influenzare organizzazioni, gruppi o istituzioni dall’interno, per non parlare degli effetti della proposizione acritica di immagini che creano disagio in chi le guarda e stimola la stigmatizzazione di coloro che quelle situazioni hanno generato.
A questo punto credo sia doveroso invitare a prestare attenzione e a non sottovalutare quello che stiamo vedendo anche in questi giorni nelle nostre piazze: il più grosso errore che si possa commettere è pensare che tutto avvenga spontaneamente.
Ora, alla luce di quanto testé esposto, credo che appaia oltremodo evidente il perché del richiamo ai quesiti omessi cui accenno nel titolo e che di seguito propongo, quesiti cui credo la doverosa premessa che precede consentirà di fare luce per ciò che riguarda la loro volutamente messa in ombra:
1) 7 ottobre 2023: attacco di Hamas dopo ben due anni, documentati, di preparazione! A che pro? Per il conseguimento di quale obiettivo strategico, visto che la reazione dell’IDF era quanto mai certa?
Il non coinvolgimento di Teheran in questa fase, non coinvolgimento confermato dalla stessa intelligence USA, lascia aperta la strada a molte ulteriori domande circa chi ha, in qualche modo, indirettamente ‘suggerito’, promosso o comunque lasciato intendere un possibile supporto a reazione dell’IDF avviata.
Il ritrovamento di massicci quantitativi di armamenti cinesi a Gaza e presso gli Houthi fa sorgere non pochi quesiti, ma stranamente nessuno o quasi si è più occupato della cosa: perché?
2) allo stato attuale ed alla luce di quanto accaduto e sta accadendo, resta alquanto incomprensibile la capacità di combattimento di Hamas per continuare l’offensiva contro l’IDF.
Certamente parte della spiegazione risiede nella presa in esame del dedalo di tunnel che corrono nel sottosuolo dell’intera Striscia di Gaza per qualcosa come più di 750 km, con migliaia di punti di accesso disseminati ovunque ed occultati nelle cantine e nei sotterranei di edifici civili, abitazioni private, scuole, ospedali, edifici pubblici… utilizzati dai miliziani di Hamas per accedervi e muoversi indisturbati in tutto il territorio, nonché occultare a proprio piacimento armi e munizioni da usare all’occorrenza nel modo più efficace possibile.
Ciononostante, in conseguenza del fatto che le immani distruzioni degli insediamenti della Striscia di Gaza ha sicuramente portato pure a quella della maggior parte degli arsenali della milizia, resi indisponibili quelli delocalizzati nelle aree controllate dall’esercito Israeliano, chiuse le vie di approvvigionamento al confine con il Libano ed inutilizzabili quelle marittime in quanto oltremodo presidiate, lasciando di fatto percorribili solo i tunnel aperti lungo il confine con l’Egitto (come è possibile vedere nella foto allegata), resta da capire chi e come stia rifornendo Hamas delle armi e delle munizioni necessarie a contrastare l’IDF, nonché il perché pressoché nessuno abbia sollevato la questione fino ai primi di Febbraio di quest’anno.
È infatti del 7 febbraio 2024 un articolo apparso su Avvenire con il titolo “Cosa resta di Hamas dopo quattro mesi di. guerra?” Nell’articolo si parla di un potenziale bellico notevolmente ridotto quantunque vi si possa leggere: “un dato che inquieta: al 7 febbraio 2024, i terroristi conservano micro-capacità di attacco in tutti gli scacchieri della Striscia. Continuano a tendere imboscate ai soldati israeliani, lasciando presagire nuove battaglie”.
Ebbene, da quella data sono passati altri 3 mesi sicché la domanda spalancata è: chi —e soprattutto come— rifornisce ancora Hamas delle armi e delle munizioni necessarie a proseguire lo scontro e ad avere la forza per, se non altro tentare, di imporre condizioni di pace?
Personalmente non mi stupirei se alla fine venisse fuori un coinvolgimento dell’Egitto, in quanto sarebbe meglio non dimenticare che tutti i governi dei Paesi arabi sono da sempre doppiogiochisti come e più di tanti altri.
Non è un insulto, ma un dato di fatto. Si pensi agli Emirati Arabi Uniti che, quantunque alleati degli USA, spiavano la CIA; all’Arabia Saudita alleata degli USA, ma membro dei BRICS, quindi apparentata a Mosca, quella stessa Mosca che sta cercando di soppiantare nel comparto delle esportazioni petrolifere dirette in Cina nonostante si sia prestata a triangolare per far fluire in Occidente il petrolio russo stoccandolo come proprio in Libia e poi vendendolo a noi Europei… e via avanti.
Ecco perché ho detto che mi stupirei se un giorno venisse fuori che ad essere coinvolto sia proprio l’Egitto con la benedizione tacita di Beijing anche perché, in fondo se i profughi palestinesi sono tali lo devono ad un certo Nasser che, allorché attaccó Israele nel 1967 alla testa di una coalizione di Stati Arabi, con l’appoggio di Mosca, per cancellarlo dalla faccia della terra, invitò quelli che ora sono profughi ad abbandonare le proprie case per non finire in mezzo agli scontri per poi farvi ritorno a guerra vinta ed Israele annientato. Le cose andarono diversamente, l’Egitto perse la guerra, la faccia ed il Sinai e quelli che dovevano tornare alle proprie case le persero per sempre.
Altro che due Stati con il ripristino dei confini con riferimento a quelli del 1949!
Ci vuole una bella faccia tosta! (quella della Cina).