“Ora affrontiamo la prospettiva molto reale di 10.000 prigionieri dell’Isis che si uniranno nuovamente al campo di battaglia“, ha detto il senatore statunitense Jeanne Shaheen in una una recente dichiarazione. La rivelazione non rappresenta certo una novità per i Paesi interessati dal fenomeno dei foreign fighter. Piuttosto, la preoccupazione viene alimentata anche dai miliziani liberi che, riuniti in cellule di combattenti, continuano nella loro strenua resistenza contro le forze dell’Alleanza anti-Isis. Ma tra questi, molti hanno scelto percorsi alternativi all’inutile martirio sul teatro siro-irakeno. Centinaia di jihadisti, infatti, hanno scelto di muoversi in massa verso altre terre per esportare la guerra santa loro delegata dall’ormai defunto al Baghdadi, in particolare in Libia, Nigeria e, ovviamente, in Europa.
Gli itinerari sono quelli tracciati dalle carovane di migranti in continuo movimento sulla direttrice libica e su quella turca. Attraverso il nord Africa o i Balcani è infatti possibile sfuggire ai controlli più o meno serrati delle forze di sicurezza dei vari Paesi e a approdare nelle mete predestinate. Ma se la reunion con gli jihadisti del Sahel rappresenta un compito sicuramente meno arduo, il passaggio in Occidente comporta molti step rappresentati dal cambio di fisionomia, dall’approvvigionamento di documenti falsificati e dalla ricerca di una via sicura che li conduca a destinazione.
Inutile sottolineare i rischi connessi ad una presenza di masse di stranieri “anonimi” fuori controllo. Tra questi centinaia di jihadisti mimetizzati che all’occorrenza, e in maniera del tutto autonoma, possono innescarsi e compiere gesta eclatanti provocando stragi e danni collaterali con i quali, di certo, non possiamo abituarci a convivere.
Gli “italiani”
Il 10 ottobre corso, il presidente della regione dell’Eufrate, federazione della Siria del Nord, ed ex sindaco di Kobane, Anwar Muslem, aveva dichiarato all’AdnKronos che “Tecnicamente non so quanti siano, ma so che ci sono italiani tra gli jihadisti attualmente detenuti nelle prigioni nel nord della Siria gestite dalle Unità di protezione del popolo (Ypg) curdo”.
Secondo le stime dell’intelligence italiana, sarebbero 138 i foreign fighter italiani partiti verso la Siria e, tra questi, molti sarebbero deceduti o già rientrati per vie alternative. Il conteggio è parziale, anche in considerazione della consistente movimentazione dei clandestini verso e dal Medio Oriente.
Secondo quanto riferito dalla delegazione curda arrivata a Roma in concomitanza con l’inizio dell’offensiva turca in Siria, sarebbero circa 12mila gli jihadisti sotto il controllo delle Ypg. “Quando la Turchia entrerà nel Rojava”, la regione gestita settentrionale della Siria sotto il controllo dei curdi, “non potremo più controllare i detenuti dell’Isis che attraverso la Turchia si sparpaglieranno in tutto il mondo perché sono cittadini di 52 Paesi”, ha messo in guardia nel corso di una conferenza stampa Ahmad Yousef, membro del consiglio esecutivo della cosiddetta federazione della Siria del Nord. Questi jihadisti, ha sottolineato Dalbr Jomma Issa, comandante delle Ypj, le unità femminili delle Unità di protezione del popolo (Ypg) curdo, sono “molto pericolosi non solo per i curdi, ma per l’interà umanità. Noi non pensiamo di rilasciarli, ma non sappiamo neanche noi fino a quando possiamo sorvegliarli”.
Gli europei
I Paesi europei si dicono pronti a riportare in patria, seppur con riluttanza, i loro combattenti dell’Isis, in assenza di una politica alternativa. II primo ad annunciare la svolta, per certi versi obbligata, è stato il presidente Usa Donald Trump, dichiarando che adesso gli alleati sarebbero “disposti a riprendersi i foreign fighter”.
Il quotidiano britannico Guardian ha rivelato che Belgio, Regno Unito, Francia e Germania si muovono sulla stessa linea, quella del rimpatrio dei propri miliziani. In Siria e Iraq si muoverebbero circa 2.600 foreign fighters europei, pur mancando una stima precisa sul numero di quelli già catturati dalle varie forze in campo.
Il ritiro delle forze americane e l’avanzata di quelle turche nel Kurdistan, ha fatto aumentare considerevolmente il rischio di fuga dei miliziani detenuti. Molte prigioni sono state prese d’assalto dagli jihadisti del Daesh che hanno consentito l’evasione dei miliziani del Califfato e, di fatto, la loro latitanza.
Anche le mogli o le vedove dei mujaheddin, con i relativi figli, rappresentano una potenziale minaccia in considerazione dell’istruzione impartita dai capi famiglia a loro volta indottrinati dagli emissari del Califfato. Il rischio di un ritorno in Europa di intere famiglie ideologicamente spinte all’esportazione della jihad o, comunque, a compiti di proselitismo, reclutamento, organizzazione logistica, non deve essere sottovalutato. Se è vero, come dimostrato, che all’interno delle comunità di immigrati esistono interi nuclei dediti quantomeno al favoreggiamento delle operazioni in Occidente, l’attenzione delle intelligence va indirizzata anche verso l’afflusso di semplici famiglie che si presentano ai nostri occhi in condizioni miserabili in cerca di una condizione meno indigente, ma pronti all’assoluta obbedienza in osservanza degli ordini ricevuti.
Gli itinerari dei jihadisti
Nello scorso mese di settembre veniva rivelata un’operazione condotta dall’Interpol durante l’estate che consentiva di individuare i porti di approdo di foreign fighter diretti verso l’Europa e di avviare 31 nuove indagini in relazione alla movimentazione dei miliziani. Sei le nazioni interessate dall’operazione denominata “Neptune II”, oltre all’Italia, Algeria, Francia, Marocco, Spagna e Tunisia.
Il Servizio per la cooperazione internazionale di Polizia della Direzione centrale della polizia criminale (Scip), interessato per il nostro paese, ha individuato nei porti di Genova e Palermo gli approdi di riferimento di sospetti terroristi a bordo di navi di linea o mercantili.
Gli operatori di polizia hanno effettuato oltre 1,2 milioni di interrogazioni, ricerche e riscontri sulla banche dati Interpol, specializzate in documenti di viaggio rubati o smarriti, dati su criminali e autoveicoli rubati, attraverso la rete mondiale di comunicazione protetta, consentendo l’avvio di 31 indagini, di cui oltre 12 relative al movimento di sospetti terroristi individuati grazie ai controlli incrociati e allo scambio informativo tra i diversi paesi coinvolti nell’operazione.
L’indagine dell’Interpol ha riguardato le rotte ufficiali attraverso le quali si muovono solo alcuni dei foreign fighter di ritorno dal Medio Oriente o quelli destinati a missioni in Europa. Come più volte rilevato dagli organi di informazione, gli itinerari clandestini restano quelli prediletti dai miliziani poichè consentono di sfuggire con più facilità ai controlli delle forze di polizia. La rete dei controlli sulle rotte marine è assolutamente più blanda e, per il nostro Paese la vigilanza alle frontiere è praticamente una missione impossibile.
La rotta mediterraea
Il continuo viavai delle navi delle Ong, impegnate nel servizio taxi che favorisce gli affari di organizzazioni criminali strettamente connesse a quelle di stampo terroristico, favoriscono l’afflusso di persone sulle coste libiche e tunisine in attesa di condizioni meteo favorevoli alla partenza. Tutto questo con un costo altissimo in termini di vite umane e di sicurezza per l’intera Europa.
La Libia è il paese nordafricano più interessato dal fenomeno migratorio diretto verso l’Europa e la presenza radicata di jihadisti all’interno dei confini libici, in costante aumento dopo la caduta dello stato islamico in Siria ed Iraq, ha da tempo fatto elevare il livello di allerta tra l’intelligence nostrana e quelle dei paesi interessati dalla movimentazione in entrata dei clandestini. Nello scorso mese di settembre, un raid dell’aviazione statunitense ha colpito un gruppo di miliziani dello Stato islamico nel sud della Libia, nei pressi dell’oasi di Murzuk, a circa 1000 chilometri a sud di Tripoli. Nell’attacco sono stati neutralizzati otto jihadisti appartenenti alle truppe del Califfato precedentemente individuati tramite il monitoraggio dei droni. Il blitz dei cacciabombardieri americani altro non ha fatto che rendere ancora più evidente come l’Isis, pur decapitato dei suoi vertici, rappresenti ancora una minaccia per la sicurezza a tutti i livelli.
Le tre maxi regioni libiche, Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, sono infestate dalla presenza di entità jihadiste dedite ad attacchi contro agglomerati urbani alla ricerca di approvvigionamenti, armi e automezzi, in questo non ostacolate dai militari di al Serraj ed Haftar, impegnati nel conflitto che si trascina da anni nel Paese. Le filiali di al Qaeda nel Maghreb islamico e dello Stato islamico, inoltre, fanno affari d’oro nelle zone di confine a sud della Libia essendosi di fatto appropriate dei varchi di ingresso delle masse migratore in movimento verso le coste.
Le città di Ghat e Macchè, rispettivamente al confine con Algeria e Ciad, sono infestate dai miliziani jihadisti che quotidianamente derubano i migranti o semplicemente li prelevano per condurli nei campi da dove, ottenuto il pagamento per il viaggio, li avviano verso le coste libiche dove altre cellule sono impiegate nella preparazione dei natanti da inviare verso le coste italiane. E le entità jihadiste operanti in Libia sono ben conscie del ruolo fondamentale svolto dal controllo del traffico di esseri umani. Seguendo le direttive delle rispettive leadership, infatti, provvedono a infiltrare i flussi di migranti con i miliziani in missione da avviare in Europa così come, in accordo con la mafia nigeriana, i sodali dell’organizzazione da impiegare nei Paesi di destinazione.
Per la Tunisia, le rotte predilette sono quelle che partono da Sfax, dove un’organizzazione locale, gestita da elementi contigui ad Ansar al Sha’aria , e noti alle cronache nostrane per i loro trascorsi nel nostro Paese, provvede a raccogliere i “candidati” alla traversata e al loro indottrinamento in relazione alle versioni da proporre alle forze dell’ordine, allo scopo di ottenere status di rifugiati o facilitazioni del soggiorno dopo il loro approdo sulle coste italiane. I miliziani “in missione”, precedentemente segnalati ai trafficanti dai network del terrore, hanno diritto a un trattamento di favore e alla dotazione del necessario da utilizzarsi al loro arrivo in Italia. Successivamente a questi step, i migranti vengono trasferiti in capannoni alla periferia di Sfax nell’attesa di condizioni meteo favorevoli alla traversata e alla disponibilità di un natante.
Il viaggio può prevedere una rotta diretta verso le coste italiane o, nel caso di controlli più serrati da parte della Guardia costiera tunisina, comprendere una sosta alle isole Kerkennah in attesa di un alleggerimento della vigilanza.
La rotta balcanica
Anche i Balcani sono interessati, e non in maniera marginale, dal flusso di migranti e jihadisti. I primi vengono dirottati dalla Turchia verso Grecia (via mare) e Croazia dove sono spesso rinchiusi in profughi dai quali, comunque, tentano di sottrarsi ai controlli e dirigersi verso l’Europa occidentale. Per i secondi, il discorso è diverso. Alcuni si associano ai gruppi jihadisti operanti tra Albania e Bosnia Herzegovina, sfruttando tra l’altro la presenza capillare dei combattenti jihadisti rimasti sul territorio dopo il conflitto con la Serbia. In special modo, i miliziani locali sono radicati nelle enclavi della provincia di Zenica, ove opera dall’epoca della guerra dei Balcani, il loro leader indiscusso, Imad al-Husin, meglio noto come Abu Hamza al Suri, detenuto fino al 2016, successivamente scarcerato dalle autorità bosniache. Le cellule dei fondamentalisti islamici continuano a mantenersi attive e a trarre profitto dall’ospitalità a correligionari così come facilitando i clandestini lungo itinerari considerati sicuri.
Anche in questo caso i jihadisti delegati a compiti in Europa, ottengono particolari “favori” da parte dei jihadisti locali che provvedono alla fornitura di documenti per l’espatrio “regolare”, somme di denaro e, soprattutto, cellulari ripuliti da utilizzare al loro ingresso in Europa.
Lo snodo italiano dei miliziani
Nel nostro Paese i punti di aggregazione sono molteplici e, se in passato venivano individuati nei centri di cultura islamica che mascheravano veri e propri rifugi per jihadisti, i ripetuti controlli delle forze di polizia hanno reso i fiancheggiatori dei miliziani molto più accorti. Niente più moschee clandestine, ma alloggi regolarmente censiti con prestanome o occupazioni abusive di palazzi nelle periferie delle metropoli, con la possibilità di decentralizzare le cellule operative nelle province ben collegate ai punti di smistamento e di approvvigionamento di beni, documenti e mezzi di trasporto per gli “operativi” dell’organizzazione. Organizzazioni ramificate che all’occorrenza utilizzano il metodo hawala per il flusso di capitali, i ricettatori del posto per i cellulari muniti di schede intestate ad ignoti, biglietterie aeree e ferroviarie gestite da proprietari compiacenti e, da non sottovalutare, il ruolo di primo piano ricoperto da italiani senza scrupoli che si prestano, dietro compenso, a favorire latitanze o semplici ospitalità provvisorie a jihadisti dichiaratisi semplici clandestini.
Anche alcuni convertiti italiani giocano un ruolo nel vasto apparato dei network jihadisti. Se per alcuni si configura in un parziale appoggio ai movimenti fondamentalisti in un’ottica di islamizzazione più o meno indotta dell’Occidente, per altri si materializza in una vera e propria adesione alle organizzazioni jihadiste con il vantaggio di “giocare in casa”.
Con la morte di al Baghdadi non si assisterà certo a una diminuzione della minaccia terrorista ma, se possibile, a una recrudescenza di atti compiuti da singoli elementi ispirati da sentimenti di vendetta. La riorganizzazione dei ranghi dell’Isis e l’attesa ricomparsa di al Qaeda potrebbero caratterizzare un futuro molto prossimo.
L’organizzazione di attentati complessi, fortunatamente venuta meno nel periodo medio breve, potrebbe incrementarsi con l’arrivo in Europa dei reduci dal conflitto siro-irakeno, decisi a riappropriarsi del palcoscenico massmediatico che fornisca continuità di azione, proselitismo e reclutamento di nuove leve della jihad.