E’ passata sotto silenzio la notizia che in Bangladesh i vertici del partito Jamaat e Islami sono stati arrestati dalle forze di sicurezza del Paese asiatico, tra questi il numero uno di Jamaat-e-Islami, Maqbul Ahmed, il vice leader Shafiqur Rahman e l’ex membro del parlamento Golam Parwar. L’operazione si colloca nell’ambito della politica di repressione contro i principali oppositori del governo in carica ma anche, e soprattutto, nell’ottica di un controllo dell’espansione dell’Islam radicale tra la popolazione.
Il Jamaat e Islami è un partito islamista nato nel 1941 per opera del predicatore Abu A’la Mawdudi, impegnato a diffondere una visione sociale e politica dell’Islam seppur con una forte connotazione integralista essendo strettamente legato alla Fratellanza Musulmana egiziana.
I sospetti sull’operato del Jamat e Islami in favore delle organizzazioni terroristiche, prima fra tutte al Qaeda sono sempre rimasti latenti. Le elargizioni di lauti finanziamenti alle comunità bengalesi stanziate all’estero affinchè creassero strutture di preghiera e di predicazione, sono sempre state viste come una spinta all’espansionismo islamista in Occidente dove, soprattutto in Italia, il Bangladesh rappresenta una delle più nutrite comunità stanziali e le moschee semi-clandestine gestite da bengalesi crescono in modo esponenziale, in special modo nei grossi agglomerati urbani.
Anche se sul conto della comunità bengalese residente in Italia non sono finora emersi fattori che indichino fenomeni di radicalizzazione, le preoccupazioni dei cittadini riguardano invece l’apertura di sempre più luoghi di preghiera, scuole coraniche ed attività commerciali con il fiorire di interi rioni pressocchè monopolizzati da bengalesi che, continuando a mantenere intatta la loro connotazione etnica, non paiono disposti a integrarsi con i locali, con i rischi legati a una loro ghettizzazione e a una sensazione di assedio vissuta dai residenti autoctoni.
E’ il caso, a titolo di esempio, del quartiere Torpignattara di Roma, dove la presenza di ben cinque sale di preghiera in un area di 1 chilometro quadrato ha creato una situazione di estrema tensione tra gli italiani residenti e gli immigrati dell’area indo-pakistana. Anche in questo caso il flusso continuo di finanziamenti derivanti sia dalla raccolta della zakat, l’elemosina islamica, sia soprattutto dalle organizzazioni come la Jamaat e Islami, ha contribuito alla nascita di moschee semi-clandestine dalla chiara connotazione etnica, che pur svolgendo prevalentemente attività di culto, non disdegnano di offrire ospitalità a clandestini bengalesi in cerca di rifugio o di sistemazione.
Tutto ciò potrebbe validamente esemplificare la stretta connessione tra i circuiti di finanziamento dell’Islam e le problematiche connesse all’immigrazione, essendo i due fattori strettamente legati a fattori etnici indissolubili.
E proprio in relazione alle politiche intraprese nei confronti del Bangladesh il ministro degli interni Marco Minniti, durante l’audizione al comitato Schengen del 10 ottobre scorso, ha inteso ribadire che “al vertice di Bruxelles del 14 settembre abbiamo assunto una decisione molto importante. Si é deciso che l’Unione europea si impegni a svolgere una politica comune europea per i rimpatri, questione delicata e più volte richiesta dall’Italia, e soprattutto di legare questa politica di rimpatri al rilascio di visti d’ingresso nell’Unione europea”.
Il principio di base è di intraprendere una politica di restrizione dei visti per l’Unione europea nei confronti di Paesi che non accettano il rimpatrio di migranti irregolari e, su questo principio “si è deciso di far partire un esperimento campione che viene fatto in Bangladesh”, Paese dal quale provengono migliaia di migranti irregolari.