Talvolta alcuni libri si esauriscono o nelle alette laterali di presentazione o nella quarta di coperta, nel senso che il significato fondamentale di quanto l’Autore ha intenzione di trasmettere è già totalmente contenuto in esse, per cui scorrere le pagine del testo non serve a individuare ragionamenti ulteriori o novità particolari, ma solo a cogliere il dettaglio di quanto posto a sostegno delle maggiori e più pregnanti linee tematiche per l’appunto già ampiamente ed esaustivamente tracciate ‘fuori’ del corpo stesso di esso. Il caso di cui si parla potrebbe essere tranquillamente riferito al libro di Enzo Traverso Gaza davanti alla storia, pubblicato nella collana «i Robinson» della Laterza a giugno 2024, in cui l’accademico, più noto per i suoi studi sulla violenza nazista, le radici e le fenomenologie dei totalitarismi del Novecento, il deposito della vicenda tragica di Auschwitz nell’intellettualità culturale del secondo dopoguerra, le forme assunte dall’esilio ebraico-tedesco, la modernità ebraica e, di recente, il rapporto tra la rivoluzione e il presente, si cimenta, nonostante la sua stessa ammissione di non essere uno studioso del Medio Oriente e del conflitto israelo-palestinese, nel tentativo di individuazione di un’interpretazione storico-contestualistica tanto dell’attacco del 7 ottobre, perpetrato da Hamas ai danni della popolazione civile israeliana al confine sud della Striscia di Gaza, quanto della reazione di Israele, giudicata del tutto sproporzionata rispetto a quella specifica incursione. Tale direttrice esegetica, quindi, impone al professore della Cornell University di Ithaca (New York) alcune fondamentali istanze interrogative. La prima riguarda la natura dell’intervento armato israeliano a Gaza, che inaugura, in pratica, l’operazione militare denominata ‘Spade di Ferro’, ovvero se esso – già nella quarta di coperta indicato ‘preventivamente’ e ‘orientativamente’ come ‘distruzione di Gaza’ – sia da ritenersi quale mero effetto della serie di atti violenti commessi da Hamas il 7 ottobre oppure quale punto di arrivo di ‘un lungo processo di oppressione e sradicamento’ del popolo palestinese da parte di quello israeliano. La seconda, posta direttamente in stringente linea di sequenzialità logica con l’idea, precedentemente data, invece, come opzione ancora retoricamente da suffragare, di una sopraffazione soggiogativa israeliana nei confronti dei palestinesi, concerne la possibilità di mettere in questione (artificiosa) se il popolo palestinese – come qualsiasi altro si trovasse nella sua medesima situazione di subalternazione – non debba per caso accedere, in teoria e in pratica, al diritto di resistenza a un’occupazione in atto (per di più, stante l’antecedente quesito retorico, ormai da tempi remotissimi). La terza, per concludere, apre alla possibilità di disgiungere l’attribuibilità allo Stato di Israele del reato ‘collettivo’ di ‘genocidio’ dal rischio per chi compie tale attribuzione di essere tacciato di antisemitismo. Insomma Traverso starebbe asserendo, pur attraverso un strategia comunicativa di tipo apparentemente scettico-dubitativo e interrogativo, oltre che storicistico-situazionistico, e dunque degna del miglior giudizio scientifico da parte della comunità degli studiosi, un’unica teoria anti-israeliana articolata su tre macro-giudizi(/pre-giudizi): 1) Israele è la causa principe e fondamentale del suo stesso attuale male radicale, ovvero della ‘re-azione’ hamasiano-palestinese a un periodo lunghissimo di occupazione ebraica, inaugurato, in pratica, con la nascita medesima dello Stato di Israele; 2) l’assalto di Hamas, per quanto deprecabile, deve essere compreso come atto di estrema disperazione del popolo palestinese all’interno di un ‘legittimo’ diritto di resistenza all’occupazione della propria terra; 3) Israele non solo non deve sempre contare sull’‘ombrello dell’antisemitismo’ per ripararsi da qualsiasi accusa gli sia rivolta, soprattutto di carattere politico-governativo, giuridico-internazionalistico e militare, ma soprattutto deve accettare la condizione per la quale, essendo divenuto uno stato ‘normale’, come gli altri, possa incorrere, laddove i fatti lo dimostrino e lo certifichino, nell’accusa di pratiche genocide e di azioni del tutto assimilabili a crimini di guerra e contro l’umanità.
Indicato, nel testo, come ‘uno dei più autorevoli storici del nostro tempo’, e, quindi, meritevole di essere ascoltato con rispetto e deferenza per cose sicuramente vere e credibili dette a proposito di Israele, dell’annientamento di Gaza e dello sterminio dei palestinesi, Traverso, forte del fatto di essere spalleggiato per l’appunto dalla storia – che solo lui, dunque, deterrebbe in maniera oggettiva e assoluta, padroneggiandone anche le possibilità interpretative –, sarebbe in grado, con il suo libro, di sovvertire radicalmente quell’univoca e ossessiva linea esegetica, secondo lui, ormai largamente invalsa, che testimonierebbe a favore di Israele nella sua contesa con Hamas e il popolo palestinese. Tolto che la sola invocazione della storia a sostegno delle proprie tesi non garantisca né dell’automaticità della incontrovertibilità di queste ultime né, tantomeno, della veridicità dell’esposizione dei fatti narrati, pur certamente essendo ben disposti a non voler dubitare della buona fede del loro estensore e sul suo calibro accademico, riesce veramente complesso immaginare che Traverso stia proponendo una novità interpretativa nel panorama attuale delle pubblicazioni sul conflitto israelo-palestinese. Sarebbe sufficiente, infatti, fare un salto nelle librerie mainstream quanto in quelle di nicchia e indipendenti per trovare apparecchiati ordinariamente tavoli espositivi tematici sull’argomento in questione quasi interamente orientati in senso anti-israeliano o comunque pro-palestinese. E, se si osserva anche distrattamente, essi trattano, complessivamente o analitico-monograficamente, in modo palese gli stessi temi scelti dal professore della Cornell per il suo libro, tanto che questi possono essere isolati, ormai, come dei topoi che circolano, in forme di volta in volta variate e nemmeno tanto dissimulate, così vorticosamente e insistentemente da non lasciare spazio, se non esiguo e mal giudicato, a suggerimenti editoriali ermeneutici alternativi, risultanti, perciò stesso, sconvenienti, irriverenti e rigettabili. Dunque, quella di Traverso pare piuttosto una sorta di micro-summa dell’anti-sionismo di ogni tempo, declinato, però, sullo specifico versante del segmento temporale inaugurato col 7 ottobre 2023 con l’attacco di Hamas. Per questo con difficoltà emerge il tratto di originalità interpretativa che egli rivendica per sé e per il suo scritto ‘notazionale’ di circostanza, per questo pamphlet che dovrebbe addirittura costituire, secondo il suo stesso Autore, pur nella sua modesta densità quantitativa, un punto di vista ‘fuori dal coro’, addirittura un ‘contrappunto’ rispetto alla narrazione abituale e consueta che vorrebbe Israele vittima, mentre, al contrario, è, per lui e per tantissimi altri studiosi e intellettuali gravitanti nella medesima area culturale(-politica), duramente carnefice. Ci si chiede, di conseguenza, in cosa questo testo si distinguerebbe dagli altri che ne condividono tematiche, impostazione e orientamento, al punto da farlo luccicare come una pietra preziosa, come un gioiello impareggiabile e come una gemma incomparabile? Già solo prendendo in esame comparativo alcuni testi usciti di recente recanti nel titolo la parola ‘Gaza’ si rimarrebbe stupiti dall’aderenza non solo contenutistica, ma anche verbale e logico-concettuale fra questi e quello di Traverso, al punto da far supporre non tanto l’allineamento culturale e di sensibilità fra loro, ma, filologicamente parlando, quasi la condivisione di una medesima matrice originaria, ideologico-filosofica e letteraria. Tra riviste e monografie, spuntate come funghi in questi mesi, dedicate alla contesa tra Israele e Hamas-palestinesi, il tema, ad esempio, dell’impiego da parte dello Stato ebraico di armi dotate di Intelligenza Artificiale è stato trattato in modo pressoché uniforme dagli studiosi o dai giornalisti d’inchiesta impegnati in tali sforzi editoriali, ovvero sottolineando quanto esso testimoniasse sia la consapevolezza piena degli alti gradi militari delle morti provocate quanto il carattere di pianificazione volontaria aberrante di uccisioni di massa, in tal modo ponendo solide basi per poter suffragare l’ipotesi di una pratica genocida israeliana rispetto alla popolazione palestinese. Ma ci si è chiesti perché, quando sono gli eserciti di altri Stati a utilizzare droni o altri strumenti bellici digito-intelligenti nei confronti dei loro nemici, essi si starebbero solo difendendo legittimamente da questi e non starebbero, al contrario, come Israele, dimostrando di aver preventivamente e scientemente progettato le uccisioni del popolo ostile? Ci si è domandati perché le forze armate israeliane sono costrette a colpire, attraverso sistemi di tracciamento algoritmico, abitazioni private per raggiungere ed eliminare i terroristi di Hamas, che, invece di impiegare, per il combattimento sul campo, spazi specificamente militari o di mostrarsi come corpo separato dalla popolazione palestinese di Gaza, vi si mescolano premeditatamente, esponendola di fatto alle violenze intrinseche a ciascun conflitto bellico e utilizzandola come scudo umano? Ci si è posti, per puro caso, il quesito di come il profilo, la natura e l’identità tecnici di questa guerra, ovvero l’asimmetria tra la regolarità dell’esercito israeliano e delle sue forme di combattimento e l’eccezionalità e l’anomalia imprevedibili della configurazione del gruppo terroristico di Hamas e delle sue modalità di conduzione del conflitto, stiano effettivamente influendo sulla modalità e sugli esiti delle battaglie in corso? Si è solo provato a uscire dall’ingiustificata e inverosimile convinzione che la guerra Israele-Hamas, nonostante contempli due attori, per quanto asimmetrici, si stia configurando, all’interno della narrativa anti-israeliana, solo come una sfilza di bombardamenti e attacchi unilaterali, con il nemico dello Stato ebraico semmai pure privo di idonei strumenti bellici, di strategie e di personale competente, aggrappato drammaticamente ed eroicamente all’uso di rudimentali mezzi di fortuna? Ci si è criticamente posti di fronte al fatto che la stessa ‘Gaza underground’, ovvero la strutturazione reticolare sotterranea di tale città, voluta in tal modo da Hamas e complici, abbia imposto all’esercito israeliano forme di ingaggio bellico del tutto diverse da una ordinaria, già sempre difficilissima e pericolosissima, per entrambe le parti coinvolte, guerra urbana?
Ecco: quello che sembra mancare al testo di Traverso sono proprio ‘le domande di merito’, specifiche, originali, puntuali, autonome, empiriche, quelle che scavano per capire fino in fondo e veramente il terreno che attraverso di esse si vorrebbe dissodare, e per far luce lì dove è possibile che la vista ordinaria non arrivi, e che non per questo e non per forza devono assolvere sempre Israele dalle sue responsabilità e accusare la parte avversaria, ma che devono essere preferibili e preferite ad asserzioni ormai standardizzate nel linguaggio ‘vittimale/vittimistico’ univocamente pro-palestinese. Che, al contrario, non solo inchiodano, regolarmente e acriticamente, lo Stato ebraico, il suo governo e il suo esercito a colpe statutarie, relative addirittura alla sua stessa forma, per l’appunto, come Stato, sempre concepita come atto di espropriazione palestinese – altrimenti non si comprenderebbe il riferimento di Traverso ai tempi lunghi dell’occupazione israeliana –, ma soprattutto presentano Hamas come il legittimo movimento di resistenza a tale processo stimato come colonizzativo. Il complesso di attentati realizzati da Hamas nei confronti degli ebrei nel testo di Traverso, infatti, è sempre, per così dire, ‘tra(ns-)guardato’, ‘guardato-attraverso’, e ciò non nel senso di osservato minuziosamente di per se stesso, come ‘fatto’ innanzitutto da spiegare nella sua circoscritta fenomenologia attuativa e/o anche come convergenza realizzativa di una serie di tensioni e interessi presenti nel più ampio quadrante mediorientale e coinvolgenti altri attori statuali ostili a Israele, ma nel senso di porosamente aperto a un esclusivo passato di unilaterali violenze ebraiche sulla popolazione palestinese. Per Traverso, cioè, il 7 ottobre, per di più indebitamente, ingiustamente considerato ‘barbarico’ – in quanto, se così fosse giudicato, evidenzierebbe ancora una volta quell’insopportabile dialettica classica del colonialismo europeo ‘civile/barbaro’, in cui il secondo termine, quello negativo, si riferisce iniquamente, sempre all’‘altro’(-da-sé) – è ordinariamente un’occorrenza, per quanto triste e disdicevole, comunque comprensibile alla luce della storia dei rapporti tra i regolarmente violenti israeliani e le altrettanto ordinarie vittime palestinesi. Per Traverso, una volta decostruito il discorso auto-apologetico di Israele, oppresso continuamente da forze a esso avverse in modo generalmente terroristico, conviene pensare che «la distruzione di Gaza è l’epilogo di un lungo processo di oppressione e di sradicamento […]. Il 7 ottobre non è un’improvvisa esplosione di odio, ha una lunga genealogia. È una tragedia metodicamente preparata da chi vorrebbe oggi indossare i panni della vittima. Una tragedia continua; per questo è importante non rovesciare le parti» (pp. 12-13). Insomma, Israele avrebbe contribuito al massacro dei suoi cittadini, anzi, più terribilmente, ne sarebbe l’unica vera ‘storica’ ‘causa’, avendo indotto Hamas – movimento nazionalistico-religioso proteso benevolmente a rappresentare gli interessi della popolazione palestinese, principalmente quella della Striscia di Gaza, e quindi in sé incapace di suscitare, nel tempo, una sua immagine distorta, ma solo una giustamente ‘resistentiva’ – a deviare verso una sua radicale militarizzazione e avendolo costretto ad assumere posizioni estremistiche, probabilmente pur non volendolo o in opposizione alle sue intenzioni originarie e alla sua stessa natura, al contrario eminentemente e squisitamente politica. Per lo studioso della Shoah, il combinato disposto tra destituzione del concetto di ‘guerra’ per definire l’odierno conflitto tra Israele e Hamas – in stretta corrispondenza, però, con il generale modo ebraico di trattare militarmente i palestinesi da quando sono diventati ‘israeliani’ ‘occupanti’ – e l’affermazione indiscutibile di una prassi genocidaria da parte del governo di Netanyahu e dell’esercito ebraico starebbe a certificare l’avvenuta inversione/trans-formazione ‘cata-strofica’ della posizione ‘classica’ degli ebrei da vittime a carnefici, pur nel mantenimento da parte di essi di una sorta di credito storico acquisito con le sofferenze patite nel corso del tempo e, principalmente, a causa dell’Olocausto. Per Traverso «Il concetto di guerra – usato in queste pagine secondo l’uso comune di questi mesi – non è del tutto appropriato per definire ciò che sta avvenendo a Gaza, dove non si stanno scontrando due eserciti ma dove una potentissima e sofisticatissima macchina bellica sta metodicamente eliminando un insieme di centri urbani abitati da quasi due milioni e mezzo di persone. È una distruzione a senso unico, continua, inesorabile. Non siamo in presenza di due eserciti, visto il divario incommensurabile tra Tsahal e Hamas, ma di esecutori e vittime, e questa è appunto la logica del genocidio. C’è una palese ipocrisia nel linguaggio ormai convenzionale che da un lato nega ai combattenti di Hamas lo statuto di avversario legittimo, riducendoli a una volgare banda di terroristi, e definisce “danni collaterali” o, tra i commentatori più audaci, “crimini di guerra” le decine di migliaia di civili palestinesi uccisi durante la cancellazione pianificata di Gaza. I crimini di guerra, intenzionali o accidentali, non sono la finalità di una guerra, ne sono una delle conseguenze. La distruzione di Gaza è invece l’obiettivo dell’offensiva israeliana. Le fazioni più estremiste del governo israeliano perseguono mete ambiziose e vorrebbero procedere a una completa pulizia etnica della striscia attraverso l’apertura della frontiera egiziana. Undici ministri del governo Netanyahu hanno partecipato in gennaio a un raduno di sionisti estremisti per la ricolonizzazione di Gaza» (p. 19).
Come non trovare in queste parole e nei concetti che le esprimono un dizionario anti-israeliano condiviso, un patrimonio linguistico ormai convenzionale negli ambienti più rigorosamente progressisti, che dipinge Israele solamente come una macchina da guerra impietosa e Gaza, ancora una volta e come recita una parte del titolo di un libro del 2015 pubblicato dall’Editrice DeriveApprodi, il luogo in cui si esprime al massimo grado ‘l’industria israeliana della violenza’? Come non ritrovare nelle formule assertive di Traverso il lessico delle piazze ‘semplicemente’ antisionistiche – ma non per questo antisemitiche: attenzione a non confenderle e a non confondersi! –, che per essere pro-palestinesi e anti-israeliane mostrano di ‘comprendere’ le ragioni delle Brigate Qassam, braccio armato di Hamas, e di equiparare, contestualmente, la resistenza palestinese rispetto al nemico israeliano a quella italiana rispetto al nemico nazista? Come non vedere l’automatismo della novella sovrapposizione tra Israele e il Terzo Reich, tra la violenza liberata da Netanyahu nei confronti di Hamas e il genocidio degli ebrei compiuto da Hitler? Come non pensare che anche il libro di Traverso non partecipi – forse suo malgrado? – del processo di ‘sostituzione vittimaria’ del popolo ebraico, che, de-olocaustizzandolo e trasformandolo in feroce carnefice, sta consegnando a quello palestinese la posizione vittimale per eccellenza, ri-olocaustizzando quest’ultimo e deviando e concentrando su di esso tutto il carico di ‘empatia dolorosa e tragica’ storicamente accumulato e orientato in direzione della componente ebraica shoahica? Per realizzare tale passaggio e per giustificarne il senso di plausibilità e veridicità lo studioso della violenza nazista ritiene di individuare in quella israeliana aspetti fondamentali e distintivi della prima, ovvero la ‘metodicità’ e la ‘pianificatività’, che suggeriscono, neanche tanto velatamente, di ascrivere le azioni militari di Tsahal alla dimensione sterminazionistica e genocidaria, in tal modo presentando Israele come spietata fabbrica olocaustica, allo stesso modo con cui era stata definita quel sistema di morte che va sotto il nome di nazismo. In tutto ciò non una parola sul manifesto programmatico di Hamas, che prevede statutariamente l’eliminazione etno-religiosa degli ebrei e di Israele; non un cenno all’organizzazione militare di tale gruppo terroristico e alla sua rete capillare di finanziatori, che, insieme a esso, articolano, più che metodicamente e pianificativamente, la fine dello Stato ebraico, coinvolgendo in tale progetto anche volontari civili, come quelli che hanno attivamente preso parte al pogrom anti-israeliano del 7 ottobre; non un riferimento ai 76 anni in cui Israele, pur con l’appoggio dell’Occidente, statunitense e non solo, ha dovuto affrontare una situazione di emergenza permanente, dovuta alla pressione multipolare sui suoi confini, sin dal giorno della proclamazione della sua fondazione, quello, cioè, a partire dal quale i palestinesi, invece di chiedere sostegno ai potentissimi Paesi arabi amici per costruire il loro di Stato, hanno invece deciso di intraprendere una serie di guerre contro Israele, fieri e orgogliosi di non riconoscerne la legittimità esistenziale. E, ancora: non un tratto ermeneutico positivo dedicato allo sforzo, pur blandamente richiamato, compiuto recentemente da Israele e alcuni Paesi arabi, notoriamente anti-ebraici, di realizzare, attraverso un complesso ordito pattizio (gli Accordi di Abramo), un’articolazione giuridico-internazionale che normalizzasse i loro rapporti, semmai riducendo l’eruttività della questione palestinese (anche se sembrava che la stesse completamente assorbendo nella nazionalità/territorialità israeliana) e ponendo le basi per un suo affrontamento più consapevole, per di più all’interno di uno scenario regionale maggiormente disteso, anche se mai completamente quieto. Men che mai un pur minimo rimando alle possibili ragioni dello scatenamento della furia hamasiana, riferibili non tanto all’urgenza di una risposta palestinese a una lunga occupazione israeliana quanto soprattutto alla volontà dell’Iran di ri-generare, attraverso il re-innesco dell’affine Hamas, lo stato di violenza e di odio in una regione nella quale, proprio in virtù degli accordi sopra menzionati, la repubblica islamo-sciita sarebbe rimasta a bocca asciutta, dovendo pure tollerare l’ascesa progressiva e il potenziale, ma certo, primato geo-politico areale dell’Arabia Saudita, più volte sul punto di normalizzare anch’essa i propri rapporti con Israele. Ma questa, evidentemente, da Traverso non viene considerata storia, mentre lo è solamente quella che lui celebra, narrandola, come tale e che, guarda caso, in condivisione con altri ripetitori megafonici progressisti, tra loro allineati e scoperti, è sempre posta sostegno di argomentazioni anti-israeliane.
La stessa violenza subita dalla popolazione israeliana il 7 ottobre diviene, paradossalmente, nelle mani e nelle parole di Traverso, uno strumento non per aprire un varco di comprensione nei confronti dei cittadini ebrei colpiti in modo disumano e per provare a intendere cosa in quella essi abbiano visto nuovamente di una loro storia di vessazioni e umiliazioni, ma per legittimare in qualche maniera Hamas, concepito come legittimo movimento di resistenza dai metodi, certo, brutali e inaccettabili, se non fosse che sono ingiustamente provocati da una catena storica di soprusi e angherie da parte di Israele. E, per questo, ampiamente ammissibili in un’atmosfera di difesa disperata e a oltranza di quello che viene giudicato il proprio territorio. E così lo studioso ‘statunitense’ applica alla sua disamina dell’argomento in questione la filosofia espositivo-concettuale del ‘sì, ma (tuttavia, però)…’ con la quale, mentre sembra che stia, almeno per una volta, ammorbidendo la sua posizione nei confronti di Israele cercando di descrivere empaticamente dal punto di vista ebraico le crudeltà patite per mano di Hamas e mostrando di giudicarle come inaccettabili, subito, attraverso l’inserzione di un’avversativa, muta radicalmente rotta discorsiva, ritenendo quella ‘barbarie’ e quelle efferatezze come estrema risorsa energetica di resistenza armata, propria di un gruppo ‘partigiano’ che difende il proprio popolo e la propria terra. Tale schema è visibile, esemplarmente, in alcune pagine: «Alcuni hanno visto nelle atrocità del 7 ottobre “il peggior pogrom della storia dopo la Shoah”, altri il prodotto di una lunga sequenza di violenze israeliane. Naturalmente, ciò non le giustifica: decenni di occupazione non diminuiscono l’orrore del massacro dei bambini israeliani, allo stesso modo in cui la storia dell’antisemitismo non può essere invocata per giustificare il genocidio a Gaza. Resta il fatto che la violenza del 7 ottobre è nata in un contesto esplosivo. Compiere una carneficina durante un rave party è senza dubbio un crimine abominevole, ma un rave party protetto da un muro elettronico accanto a una prigione a cielo aperto non è innocuo come un concerto in una sala da concerto parigina» (p. 57). Ancora: «L’attacco del 7 ottobre fu atroce. Pianificato con cura, fu ben più letale del massacro di Der Yassin o di altri simili commessi dell’Irgun nel 1948. Il suo scopo era quello di diffondere il terrore e non è giustificabile, ma deve essere analizzato e non solo condannato. La controversia sulla dialettica che unisce il fine e i mezzi è antica. Se il fine è la liberazione di un popolo oppresso, ci sono mezzi che non sono compatibili con questo obiettivo: la libertà non può essere conquistata uccidendo consapevolmente persone innocenti. Tuttavia, questi mezzi incongrui e riprovevoli sono stati utilizzati in una lotta legittima contro un’occupazione illegale, disumana e inaccettabile» (p. 58). E per finire: «L’attacco del 7 ottobre, che ha ucciso centinaia di civili israeliani, aveva lo scopo di diffondere il terrore e può ovviamente essere descritto come un atto di terrorismo. Uccidere e ferire civili, tra cui vecchi e bambini, non era necessario ed è sempre stato dannoso per ogni causa emancipatrice. È un crimine che nulla può giustificare e che deve essere condannato. La necessaria condanna di questi mezzi d’azione non mette però in discussione le legittimità – riconosciuta dal diritto internazionale – della resistenza all’occupazione, una resistenza che comporta l’uso delle armi. Il terrorismo è stato spesso sostenuto e praticato dai movimenti di liberazione nazionale, e i miliziani di Hamas rientrano perfettamente nella definizione classica di “partigiano”: un combattente irregolare spinto da una forte motivazione ideologica, radicato in un territorio, il quale agisce in seno a una popolazione che lo protegge» (p. 60). Dunque si è in presenza di una struttura discorsiva che trasmette costantemente un’attenuazione delle responsabilità di Hamas rispetto alle violenze commesse, con tale gruppo che viene rappresentato surrettiziamente non come solamente terroristico in riferimento ad alcuni suoi atti, e perciò stesso riprovevole, ma come un movimento di legittima resistenza nazionale, indotto e costretto dai maltrattamenti regolarmente inflitti alla popolazione palestinese nel corso di innumerevoli anni di occupazione a reagire con mezzi estremi, ovvero, per l’appunto, terroristici, pur di difendere la propria gente e se stesso. Un passo ancora e la santificazione è realizzata: «Grazie a Hamas, i palestinesi sono sembrati in grado di passare all’offensiva e non solo di subire. Ciò può apparire deplorevole se si guarda a questa vicenda con occhi europei o americani, ma una parte dei palestinesi non ha nascosto la propria soddisfazione per il massacro del 7 ottobre. Per una volta, il terrore, l’impotenza, la paura e l’umiliazione hanno cambiato campo […]. La violenza palestinese ha la forza della disperazione. Non si tratta certo di idealizzarla, ma bisogna comprenderla e coglierne le radici. Hamas è visto con simpatia da un’ampia fascia di palestinesi, questo è un fatto. È popolare soprattutto tra i giovani della Cisgiordania, tra i quali la sua influenza non è imposta con mezzi coercitivi. È popolare perché lotta contro l’occupazione» (pp. 59-60). Affermazioni, queste, che – a prescindere dal loro contenuto con difficoltà universalmente accettabile, anche per il tono inconcepibilmente, stridentemente e aberrantemente trionfalistico con cui vengono espresse, in rapporto, principalmente, alla ferocia ferina liberata da Hamas in quel sabato di terrore – forse andrebbero non solo approfondite a partire da una vera e propria ricerca sul campo, ma addirittura aggiornate, soprattutto da quando i palestinesi hanno verificato che i loro difensori e partigiani si intrattenevano amenamente in luoghi di ristorazione durante i pesanti bombardamenti israeliani della prima fase dell’operazione ‘Spade di Ferro’ oppure quando certi capi di Hamas – Yahya Sinwar in particolare – chiedevano più sangue civile per portare la causa palestinese e la questione del cessate il fuoco alla ribalta internazionale.
Eppure l’unico problema, per Traverso, è e rimane Israele. Polverizzata la sua storia di emarginazione globale, annientata e destituita di legittimità la sua dimensione olocaustica, smantellata la sua reputazione internazionale, Israele, in Gaza davanti alla storia, perde anche la sua densità e statura democratica, assume l’aspetto di una dittatura razziale/razzista, si caratterizza per una forma inedita di assimilazionismo occidentalisco fondato sulla condivisione di un americanissimo suprematismo bianco, si connota per una predilezione per il fondamentalismo religioso e si distingue per una tendenza eminentemente criminale. Uno strano e perverso destino, se ci si riflette bene, per un popolo che tutte le grandi democrazie occidentali hanno imparato a considerare nel tempo un partner solido e affidabile per affinità culturali e ideali, e di cui celebrano annualmente la tragedia shoahica che esso ha patito in modo radicale e assoluto, del tutto incomparabile con altre forme di oppressione e persecuzione. Tutto questo grazie a una manovra intellettualmente raffinata e, purtroppo, plurilateralmente condivisa, che, oltre a ridimensionare e a sminuire il diritto di Israele alla propria difesa – per di più fortemente irriso nel momento in cui ci si accosta a esso, nel testo, solamente parlando di ‘dichiarazioni di rito’ in merito –, priva il 7 ottobre della sua portata drammatica per il popolo israeliano e lo muta, strategicamente, nell’atto iniziale della tragedia finale dell’olocausto dei palestinesi pianificato da sempre dallo Stato ebraico. Così facendo, ovvero, applicando al massacro dell’ormai tristemente famoso ‘sabato nero’ – quello, sì, progettato da anni dal palestinese Hamas, e, per di più, strettamente in linea con le indicazioni del manifesto programmatico di tale gruppo terroristico in ordine alla necessità di distruggere/annientare il popolo ebraico – la tecnica discorsiva dell’inversione significale per il tramite del processo di contestualizzazione, i fatti occorsi in quella triste giornata per gli israeliani, per un verso, perdono la loro consistenza/significanza attuale, dall’altro, tirati in un’unica linea interpretativa ‘passata’ (quella della storia delle vessazioni israeliane rispetto al popolo palestinese), diventano iperbolicamente la base fondativa di un plesso di argomentazioni a favore della ‘comprensibilità’ (in pratica giustificativa) delle azioni estreme compiute da Hamas in nome del diritto alla difesa del popolo palestinese. In definitiva, dunque, se la linea assunta da Traverso è questa ed è ampiamente riconoscibile come parte integrante di un ormai statuito generale approccio interpretativo, per così dire, ‘progressistico’ all’attuale stato del conflitto israelo-palestinese (dimostrato anche da altre recentissime pubblicazioni, quali, ad esempio quella di Atef Abu-Saif dal titolo Diario di un genocidio. 60 giorni sotto le bombe di Gaza per le Edizioni Fuoriscena), allora pare del tutto appropriata l’iniziativa assunta da ottanta intellettuali di estrazione politica e di nazionalità differenti, guidati dalla Professoressa Sara Fainberg, docente presso l’Università di Tel Aviv, di partecipare alla scrittura di un libro dal titolo 7 ottobre. Manifesto contro la cancellazione di un crimine, che, uscito in Francia, denuncia, guarda caso, specificamente la prassi ormai invalsa di effettiva de-significazione/de-contestualizzazione dei fatti accaduti quel giorno proprio attraverso una sbandierata operazione semiotico-politica di ‘contestualizzazione’ di essi. In tale volume, che potrebbe essere considerato un valido contrappunto tanto a quello di Traverso quanto alla linea di pensiero che esso si propone evidentemente di rappresentare sinteticamente, non solo ci si chiede come sia possibile che un crimine come quello realizzato da Hamas contro Israele sia stato «così rapidamente annacquato e cancellato», ma si pone anche il problema, generalmente trascurato e/o volontariamente passato sotto silenzio, della partecipazione attiva di civili palestinesi al pogrom di ottobre 2023. Ma non mancano nemmeno le interrogazioni, radicali, sulla scomparsa mediatica degli ostaggi israeliani e, ancor di più, sulle ragioni di un così tardivo riconoscimento (quattro mesi circa) degli stupri di massa compiuti dai militanti di Hamas sulle donne ebree. Così come, ancor più centralmente, il controcanto francese a Traverso e compagni insiste su quell’anomalia rappresentata dal «fervente sostegno dell’opinione occidentale ai nazisti di Hamas. Da qui lo straordinario assioma: la distruzione di Israele porterà pace e prosperità al mondo e i paesi musulmani svezzati dall’odio e guariti dalla peste diventeranno finalmente delle belle democrazie». Una situazione culturale che, oltre a poter condurre realmente Israele alla sua fine innaturale e l’Occidente a perdere un riferimento politico fondamentale nel quadrante mediorientale in termini di normalizzazione e stabilizzazione di quell’area, potrebbe contestualmente aprire le porte all’apparente trasformazione in senso democratico di un numero crescente di Stati a base musulmana, con i quali, gioco forza, i Paesi occidentali, oggi sostenitori dell’interpretazione di Hamas come gruppo legittimo di (una giusta) resistenza palestinese alla violenza pianificata genocidaria israeliana, dovranno confrontarsi e misurarsi. E allora davanti alla storia, a una nuova storia scritta principalmente da coloro di cui oggi sono in molti a non condividere – sembra solo esteriormente e falsamente ormai! – i principi e le idealità, non sarà più Gaza, ma quell’Occidente che avrà esso stesso legittimato una situazione politica globale ingestibile e caotica, in quanto consegnata ai suoi nemici ‘ideologici’ e ‘culturali’ di sempre. Oggi diventati, però, anche grazie al libro di Traverso, i nuovi protagonisti di una storia neo-(pseudo-)democratica, di cui si aspetta con ansia di tracciare narrativamente il profilo.