Il terzo e ultimo dibattito tv tra i due sfidanti per la Casa Bianca, Hillary Clinton e Donald Trump, l’ha vinto il moderatore Chris Wallace di Fox News. È stato infatti un dibattito più corretto dei primi due, più complesso e articolato, centrato più sui temi e moderato con imparzialità. Wallace ha posto domande e sollevato temi scomodi a entrambi, insistendo con entrambi per ottenere delle risposte. Dal focus group del sondaggista indipendente, Frank Luntz, è emerso un 14 a 12 per Trump. Tra i due quindi un sostanziale pareggio, che avvantaggia chi è avanti nei sondaggi, ovvero Hillary.
Sui mainstream media infurierà per giorni la polemica sul rifiuto di Trump di impegnarsi fin d’ora ad accettare il responso delle urne anche se a lui sfavorevole. Certo, uno strappo notevole per una democrazia abituata ad un fair play quasi ostentato (anche se spesso più di facciata e a urne chiuse). La sua risposta però può aver scandalizzato solo gli elettori che già nutrono un’opinione pessima di lui. Quanto agli altri, sarà anche apparsa sconveniente, sbagliata, ma certo l’argomento non è di quelli che possono infiammare il pubblico come sta infiammando i media e il mondo politico a Washington. E forse qualcuno ricorderà che nell’elezione del 2000 il democratico Al Gore ci mise più di un mese a concedere la vittoria a George W. Bush, dopo ricorsi e riconteggi.
In realtà, per Trump si è trattato di un autogol, forse l’unico errore commesso nel dibattito, ma per un altro motivo: non perché dovesse per forza assicurare fin d’ora di accettare la sconfitta, ma perché ha giocato il ruolo del perdente annunciato. Invece di abboccare alla provocazione avrebbe dovuto rispondere con un “non mi riguarda perché vincerò io, chiedetelo a Hillary”.
Detto questo, anche in una democrazia come quella americana il rischio di elezioni truccate o comunque di gravi irregolarità dovrebbe essere preso terribilmente sul serio, ben più di qualche cyber-attacco russo. Come ha osservato l’editorialista George Will, “è difficile pensare a una ragione innocente per cui i Democratici spendono così tanto tempo, forze e denaro, risorse scarse, nel resistere ai tentativi di ripulire le liste elettorali, per rimuovere i morti, o per cui si battono così strenuamente contro leggi sul documento di identità degli elettori. Dicono che limiterebbe l’esercizio di un diritto fondamentale. La Corte Suprema ha detto che viaggiare è un diritto fondamentale, ma nessuno pensa che mostrare un documento in aeroporto limiti questo fondamentale diritto”. Will ha anche ricordato la condotta dell’Irs, l’agenzia fiscale americana, che in tre elezioni consecutive ha ritardato di riconoscere esenzioni fiscali ad associazioni conservatrici. Non si tratta di dietrologie, ma di distorsioni autorevolmente documentate.
Che Trump accetti o meno l’esito del voto è tutto sommato secondario. Ma la convinzione che il sistema sia “corrotto” potrebbe spingere a votare milioni di americani che non votano da decenni, e che dunque potrebbero fare la differenza lontano dagli sguardi dei sondaggi, o al contrario altrettanti elettori a non partecipare al voto.
Per il resto del confronto televisivo, su Trump sono piovuti attacchi personali già sentiti, mentre per la prima volta nei tre dibattiti Hillary Clinton è stata colpita duramente sulla sua fondazione. Si è trovata in grande difficoltà sia quando il moderatore ha posto la questione della facilità di accesso dei donatori al suo ufficio di segretario di Stato, sia quando Trump gli ha rinfacciato di parlare di diritti delle donne e dei gay pur accettando milioni di dollari da Paesi, come Arabia Saudita e Qatar, dove quei diritti sono calpestati.
E per la prima volta nei tre dibattiti hanno trovato finalmente centralità alcuni temi cari ai conservatori, come Corte Suprema, aborto, immigrazione, e più scomodi per Hillary, come secondo emendamento, aborto fino a termine gravidanza, wikileaks e emailgate. Nei giorni scorsi è emersa dai documenti della stessa Fbi la prova delle pressioni del Dipartimento di Stato perché venissero rivalutate come non classificate e-mail classificate passate illegalmente per il server di posta elettronica della Clinton, alleggerendo così la posizione dell’ex segretario di Stato sotto indagine.
Sempre secondo le analisi di Luntz, Trump è apparso efficace sui temi economici, soprattutto sugli accordi commerciali come il Nafta, sui fallimenti della politica estera obamiana e sull’emailgate. Tra gli elettori indipendenti sono apparsi invece molto deboli gli attacchi di Hillary alla Russia, la risposta sulla sua fondazione e la proposta di un nuovo “stimolo” all’economia. Trump ha avuto gioco facile nel ricordare come l’Isis sia chiaramente frutto del vuoto lasciato dalle amministrazioni Obama, per effetto del ritiro dall’Iraq e delle indecisioni nella crisi siriana, e come Putin abbia “beffato” Barack e Hillary praticamente su tutti i fronti.
La sensazione è che l’improvviso anti-putinismo di Obama e della Clinton sia dovuto più a una frustrazione personale per le sberle prese in più teatri, dall’Est Europa al Medio Oriente fino alla Turchia, che a motivi ideali e strategici. Sia contro McCain nel 2008 che contro Romney nel 2012, Obama ridicolizzava le posizioni “aggressive” dei candidati repubblicani nei confronti della Russia e proponeva invece dialogo e cooperazione. Da segretario di Stato la Clinton è stata artefice del tentativo di “reset” con Mosca e la sua fondazione ha ricevuto fondi russi per aver facilitato l’accordo sulla compagnia “Uranium One”, come documentato solo un anno fa dal New York Times (quando ancora la candidatura Trump non sembrava una cosa seria).
Da candidato anti-sistema quello di Trump è un appello agli elettori trasversale, che attraversa tutto lo spettro politico, a maggior ragione dopo il venir meno del sostegno dei vertici del Gop. Hillary Clinton ha confermato la sua agenda molto spostata a sinistra sui temi socio-economici e sui diritti civili, per conquistare i “sanderisti”, ma la novità di questo dibattito è che per la prima volta si è rivolta anche ai conservatori, ricordando un attacco di Trump a Reagan nel 1987 e proponendo una no-fly zone in Siria, in contrasto con Obama e in sintonia con il senatore repubblicano McCain.
In ogni caso, se Trump dovesse perdere, come indica la maggior parte dei sondaggi, non sarà certo per i dibattiti televisivi. Anche da quest’ultimo scontro i due contendenti sono usciti rafforzando la loro ben nota immagine: Trump come candidato di rottura, anti-sistema, la Clinton più presidenziale. A ridurre le speranze di Trump sono altre tre circostanze. L’early-voting sembra stia premiando Hillary molto più di Obama quattro anni fa; nell’ultimo anno in Florida, Stato decisivo per la conquista della Casa Bianca, si sono registrati 500 mila elettori come Democratici e solo 70 mila come Repubblicani. Ma soprattutto, l’unità del Partito repubblicano su Trump era importante come fattore di legittimazione e rassicurazione dell’elettorato. Il caos in cui è precipitato il Gop, con i vertici che di fatto, anche se non formalmente, gli hanno voltato le spalle, lo sta privando di quella “accettabilità” decisiva per far presa sugli elettori indecisi/indipendenti. Si prospetta, in caso di sconfitta, un durissimo scaricabarile tra il candidato e il “suo” partito.