Governando l’America dal 1981 al 1989 con il partito repubblicano, portò una vera e propria Reagan revolution. Il contesto culturale che ha permesso i cambiamenti portati da Reagan deve essere ricercato alla fine degli anni ’70 con il conservatorismo, con la cosìdetta “white clash”, ovvero una classe di lavoratori bianchi di classe media stufi della loro posizione sociale che riportano in auge gli scontri con gli afroamericani, ma soprattutto con il neoliberismo portato agli estremi con tasse molto basse, libero mercato sfrenato e privatizzazioni: in una parola deregulation.
Il punto forte del 40esimo presidente degli Stati Uniti è stato sicuramente l’arte oratoria, per questo viene ricordato come “il grande comunicatore“. Prima di entrare in politica fu un attore cinematografico e capo della Screen Actors Guild. Sapeva convincere le persone, senza farle sentire raggirate. Il suo ottimismo era davvero agli antipodi rispetto al “malaise speech”, il discorso della crisi di Jimmy Carter. L’America del 1980 voleva essere rassicurata anche dalle parole.
Con Reagan l’America raggiunge un alto grado di libertà, ma bisogna analizzare cosa intendesse per “libertà”. Libertà da un governo forte o libertà per un governo di non preoccuparsi di situazioni come la povertà o la disoccupazione? La visione di Reagan era quella della libertà economica, che mise nero su bianco con l’Economic bill of rights del 1987. Una volta insediato il governo ci fu una riduzione del potere dei sindacati, delle regole federali per le industrie e un ribasso delle tasse. Famoso uno dei suoi primi provvedimenti nel 1981, quello di ridurre le aliquote di imposta superiore dal 70 al 50% e di fermare l’aliquota marginale al 23%.
L’idea era quella di far ripartire gli investimenti e la creazione di imprese e di far consumare di più alla classe media. In parte funzionò, ma se le grandi aziende avevano dei benefici, i salari non salirono assolutamente. Ovviamente con tasse basse il governo ha meno soldi in tasca, ma non meno spese, quelle per la difesa erano altissime in piena guerra fredda. A rimanere con lo stesso portafoglio i servizi più utili alla società: sanità, scuola e cultura. Alla fine del suo mandato Reagan lasciò gli States con un debito di 2.7 miliardi di dollari.
Rimane tutt’ora dibattuto il suo atteggiamento duale nei confronti del nemico del momento, l’Unione Sovietica. Da una parte la retorica del terrore, su cui costruì una campagna elettorale e con cui si riferiva all’Urss come “l’impero del diavolo“. Usava un linguaggio che poneva la distinzione netta tra Usa buoni e Urss cattivi come fondamentale, supportata da spese così tanto alte per la difesa che l’Urss ad un certo punto non poté più competere con la corsa alle armi. Dall’altra parte, nella seconda metà degli anni ’80 un dialogo aperto con il nuovo segretario generale del Pcus, Michail Gorbačëv per negoziare grandi riduzioni degli armamenti atomici, inaugurando quella che parve essere una nuova era di pace nel mondo. A partire dal 1989, pochi mesi dopo l’insediamento alla presidenza del successore George H. W. Bush – già vicepresidente con Reagan – l’Unione Sovietica iniziò a collassare e si distrusse nel 1991. L’approccio di Reagan alla politica estera, pur molto controverso durante gli anni della sua presidenza, a posteriori contribuì alla fine della cortina di ferro e a ristabilire il ruolo primario degli Stati Uniti nel mondo.