Era altissimo Abraham Lincoln. Magro e scarno. E nella sua casa in Kentucky, a Hodgensville, dove nacque nel 1809, si riempiva le tasche di pane e letteratura. Tutte le mattine, prima di andare nei campi ad arare il piccolo fazzoletto di terra di proprietà dei genitori, il giovane Lincoln si preoccupava di portare con sé un libro da tenere sempre sotto la camicia. E lavorava e leggeva. Senza fermarsi mai. E’ così che iniziò ad affinare il linguaggio e a sviluppare quell’ars oratoria di certo non comune, che lo avrebbe reso celebre anni più tardi prima come arguto avvocato, poi come 16esimo presidente degli Stati Uniti d’America.
La prima sezione del XIII emendamento della Costituzione degli Stati Uniti può essere considerata come il completamento della lunga battaglia di civiltà portata avanti da Lincoln, prima e durante la sua presidenza. Il testo, nel 1865, mise al bando la schiavitù nei 36 Stati allora rappresentati dal Congresso. “La schiavitù o altra forma di costrizione personale – precisava l’emendamento – non potranno essere ammesse negli Stati Uniti, o in luogo alcuno soggetto alla loro giurisdizione, se non come punizione di un reato per il quale l’imputato sia stato dichiarato colpevole con la dovuta procedura”. La schiavitù, dunque, negli States non esisteva più.
Aveva 21 anni Lincoln quando decise di lasciare la famiglia e di stabilirsi in Illinois. Gli studi di giurisprudenza, intrapresi qualche anno prima, furono una naturale conseguenza di una visione di valore dell’essere umano che il futuro Capo di Stato statunitense ha sempre posseduto. Anni più tardi, durante un viaggio nella città di New Orleans, Lincoln assistette per la prima volta alla vendita all’asta di un gruppo di schiavi. L’impressione fu “indimenticabile”.
Ben presto il futuro presidente degli Stati Uniti acquistò grande rinomanza come avvocato. Il suo successo era dovuto più che ad una profonda conoscenza delle leggi, all’onestà del suo carattere. Lincoln entrò in politica in punta di piedi e divenne ben presto uno degli uomini più importanti del partito Repubblicano. Nel 1832 si candidò per il suo partito all’assemblea legislativa dell’Illinois, ma fu battuto nelle elezioni dai democratici. Vinse due anni più tardi, nel 1834, e da allora fino al 1842 fu deputato per il partito Repubblicano, distinguendosi in particolar modo per una prima coraggiosa presa di posizione contro lo schiavismo.
Nel 1846 Lincoln rappresentò i Repubblicani al Congresso federale, dove assunse posizione contraria alla guerra che il governo degli Stati Uniti aveva iniziato contro il Messico. Sua è la presentazione, nel 1849, di un’importante proposta di legge per impedire l’introduzione della schiavitù nei territori messicani annessi all’Unione (l’entità federale che riuniva i 24 Stati del Nord America contrari alla secessione degli altri Stati nord-americani, che diedero vita nel 1861 agli Stati Confederati d’America). Nello stesso anno, dopo aver terminato il mandato parlamentare, Lincoln si ritirò a vita privata.
Il suo ritorno sulla scena pubblica è legato alla presentazione del Kansas-Nebraska act del senatore democratico, Stephen A. Douglas, nel 1854. La legge prevedeva sì la creazione di due Stati, il Kansas e il Nebraska, per l’appunto, ma soprattutto apriva allo schiavismo in questi territori. Lincoln non poté non reagire e con il discorso di Peoria dell’ottobre 1854 fondò la sua tesi antischiavista sul principio, umanitario e democratico, secondo cui “i nuovi Stati liberi sono le terre dove possono andare i poveri per migliorare la loro condizione”.
Nelle elezioni senatoriali del 1858, Lincoln fu sconfitto da Douglas, suo diretto avversario, ma ben presto divenne celebre presso l’opinione pubblica nazionale con una serie di discorsi che contribuirono in modo decisivo alla crisi politica dei democratici e all’affermazione del nuovo grande partito Repubblicano. Lincoln possedeva una sola certezza: la battaglia antischiavista contro gli Stati del Sud poteva essere vinta solo mediante la realizzazione di un potere statale più accentrato e organico che costituiva la base programmatica della nuova formazione politica.
È il maggio 1860, quando Lincoln viene scelto come candidato alla presidenza Usa del partito. Vince. Un anno dopo è il 16mo presidente degli Stati Uniti d’America e il primo presidente del partito Repubblicano. Il risultato delle elezioni, tuttavia, provoca di riflesso l’insurrezione degli schiavisti. Un mese prima del suo insediamento (il 4 marzo 1861) il movimento di secessione del Sud dava origine a una confederazione indipendente. E’ guerra. E’ la guerra di Secessione. Cinque anni di conflitto – dal 1861 al 1865 – tra Stati Uniti d’America (gli stati a Nord e Nord-Ovest che non volevano dividere la nazione) e gli Stati Confederati d’America (al Sud, che chiedevano la secessione e che erano contrari all’abolizione della schiavitù).
Di certo, il suo discorso tenuto da presidente a Gettysburg dopo la sanguinosa battaglia che si era combattuta in quei luoghi è considerato uno dei capisaldi della democrazia statunitense. Un discorso breve – 272 parole – la cui essenza è contenuta nell’incipit, che rimanda al 1776, a ben ottantasette anni prima, ovvero all’anno della Dichiarazione di Indipendenza statunitense. Perché per Lincoln l’atto di nascita dell’Unione è quello, e non la Costituzione. Per lui, Gettysburg significò “la rinascita della libertà”, che avrebbe reso tutti davvero uguali all’interno di un’unica nazione finalmente unita.
È il 14 aprile 1865 il giorno in cui gli Stati Uniti vengono sconvolti da una notizia inattesa. Al Ford’sTheatre di Washington è in programmazione Our American Cousin, commedia musicale dello scrittore britannico Tom Taylor. Manca poco all’inizio dell’opera. Seduto nel palco d’onore del teatro, il presidente Lincoln era accompagnato dalla moglie Mary. Avevano appena preso posto. Pochi passi dietro di loro camminava John Wilkes Booth, attore della Virginia simpatizzante sudista. E’ un attimo. Booth irrompe nel palco e spara un colpo di pistola alla testa del presidente al grido di “Sic sempertyrannis” (Così sia sempre per i tiranni), motto dello Stato della Virginia e frase storicamente pronunciata da Bruto nell’uccidere Cesare. Non si trattava di un coupé de teatre per festeggiare la presenza in sala del Capo di Stato Usa. Era l’assassinio di Abraham Lincoln. L’orologio è fermo alle 22:10. Il presidente morirà il mattino seguente alle 7:22. Tutti i cittadini statunitensi manifestarono un cordoglio sincero per la morte di Lincoln. La sua profonda onestà intellettuale, il suo spessore morale, lo hanno reso uno dei presidenti degli Stati Uniti più amati di sempre. Da tutti. Indistintamente. Sia da gente del nord che del Sud.