Tra i vari appuntamenti elettorali in programma in mezzo mondo, quello in Iran il prossimo 19 maggio assume un ruolo cruciale per i prossimi equilibri diplomatici dell’area del Golfo. L’Iran, infatti, non è solamente uno dei più grandi e popolosi attori a cavallo tra vicino e lontano oriente ma è, soprattutto, l’unico Paese dove vige ancora, pur tra le sue criticità, un processo elettorale in grado di esprimere, negli anni, un certo grado di alternanza e rappresentanza.
Nell’impossibilità materiale di basarsi su sondaggi che decretino un favorito, è ancora solo tempo di congetture, ipotesi e analisi. Di certo, dell’Iran, è nota la profonda imprevedibilità che caratterizza, da sempre, la sua storia novecentesca.
Il boom demografico, la trasformazione sociale, l’alternanza tra periodi di chiusura e di apertura rispetto al dialogo con i partners mondiali, rendono anche queste elezioni assolutamente imprevedibili. Se ne è parlato poco, ma parte della storia di questo appuntamento alle urne è stata già scritta proprio con la bocciatura, da parte del Consiglio dei guardiani, della ri-candidatura di Mahmoud Ahmadinejad, l’ex presidente che ha diviso e spaventato di più gli osservatori occidentali dai tempi di Khomeini. Con la sua decisione, inaspettata e contraria alla raccomandazione dei guardiani e della Guida suprema, l’ayatollah Khamenei aveva già gettato nel panico gli antichi nemici israeliani e statunitensi, pronti a riaprire di nuovo il dossier Iran, dopo anni di relativa normalizzazione. Ma non se ne farà nulla: i conservatori, stavolta, saranno rappresentati dal religioso Seyyed Ebrahim Raisi che, si scommette, sarà il vero competitor del riformista Rouhani, la cui riconferma, ad oggi, non appare affatto certa.
Impermeabile rispetto ai reflussi del Califfato e del sunnismo militante, l’Iran è di fatto l’unico attore “stabile” dell’area e il profondo caos che regna al di là dei propri confini potrebbe certamente determinare un effetto paura in grado di sconvolgere il processo di riforme avviato, tra mille difficoltà, dal presidente uscente. La relativa crescita economica che ha investito buona parte del Paese in questi anni di politiche d’apertura, polarizza questa elezione tra chi vorrebbe assumere la guida politica e religiosa dell’area e chi, giocando sull’inaffidabilità dei vicini regimi sunniti, vorrebbe fare dell’Iran un avamposto di contrasto all’Isis, presentandosi all’Occidente come partner fondamentale non più solo dal punto di visto economico.
Un pò come sta accadendo in Europa, anche a Teheran il dibattito elettorale oscilla tra un velato riformismo ed un ritorno di fiamma per il populismo in salsa iraniana, tra integralismo religioso e militarizzazione. Per comprendere in fondo questo passaggio alle urne bisogna letteralmente calarsi nelle paure degli iraniani: dopo il rafforzamento del principale avversario locale, la Turchia di Erdogan, l’Iran è come isolato tra le nuove satrapie di ritorno e il fallimento, pressoché totale, degli apparati statali dei sunniti confinanti. Lo status quo in Iraq, Siria, Afghanistan, paesi che hanno visto un intervento militare dei paesi occidentali, è infatti uno spauracchio che peserà notevolmente nei risultati del prossimo 19 maggio, in una sfida aperta influenzata da paura, integralismo e dalla voglia di rappresentare, una volta tanto, la normalità rispetto al caos che regna intorno.
@simsantucci