La tradizionale lunga notte che caratterizza da sempre la storica macchina dello spoglio delle elezioni britanniche stavolta, a differenza di un anno fa con Brexit e di due anni fa con la vittoria di Cameron, non ha riservato sorprese. O ne ha riservate troppe. La maggioranza conservatrice di fatto non esiste più e i tories escono a pezzi dalla prova muscolare che la premier aveva ingaggiato per rafforzare la propria azione di governo. Il Parlamento sospeso, lo storico spauracchio di Westminster, è ora il vero convitato di pietra di questa sfida unica e storica allo stesso tempo.
L’incubo a Downing street è iniziato proprio mentre il Big Ben si apprestava a segnare le ore ventidue e la Bbc diffondeva i dati dell’exit poll, il più soprendente ed inaspettato di tutta la storia recente. Non c’è storia: il vincitore morale di queste elezioni è proprio lui, Jeremy Corbyn il rosso. Partito con uno svantaggio di venti punti, in sole tre settimane è riuscito, un po’ per fortuna un po’ per abilità, ad ottenere non solo un numero di seggi sostanzialmente maggiore di quanto si potesse immaginare ma, addirittura, ad arrivare ad un risultato decisamente migliore rispetto alle performance di Brown e Miliband, i suoi predecessori alla guida del Labour. Un risultato impressionante se si tiene conto della faida, mai sopita, tra i blairiani più centristi e le nuove leve laburiste più vicine al nuovo corso socialista riesumato dal leader, una spaccatura che aveva costretto il leader a nuove primarie superate con un consenso larghissimo.
Durante lo spoglio, mentre tra i conservatori maturava la consapevolezza dell’ennesimo azzardo compiuto dal governo, le ipotesi e le statistiche già fioccavano degli analisti. Ne citeremo alcune, elaborate da Ofcs.report.
Per la seconda volta dopo Brexit i giovani puniscono pesantemente i conservatori, permettendo al Labour di ottenere il pienone dei consensi tra i millenials, con una percentuale superiore al 60%: un epilogo simile ma migliore della marcia di Sanders negli Stati Uniti. Non solo. Altro aspetto sorprendente è il recupero dei voti ai partiti tradizionali, un dato in totale controtendenza rispetto alle recenti elezioni francesi che hanno, praticamente, fatto fuori socialisti e gollisti in un colpo solo. In effetti siamo di fronte ad un quadro dove, pur facendo il pienone dell’elettorato in uscita da Snp e Ukip, né la maggioranza né l’opposizione riescono a raggiungere una maggioranza autosufficiente. La ripartizione dei seggi, infatti, per la prima volta da anni, non concede nemmeno lo spazio per una credibile compagine governativa di coalizione, condannando così Theresa May ad una probabile resa dei conti all’interno del suo partito e, forse, a quel governo di minoranza che nel Regno Unito significa sostanzialmente l’inizio del baratro.
Con ben 12 seggi in meno per i conservatori e i 29 in più conquistati dal Labour, il quadro che emerge ricorda molto l’annus horribilis del 1976 dove i laburisti, per uscire dallo stallo, furono costretti a governare in minoranza per un breve periodo, salvo poi riconvocare nello stesso anno muove elezioni che consegnarono solo due seggi di vantaggio. Il risultato? Il premier Wilson, dopo poco, rassegnò le dimissioni e il successivo governo Callaghan si trovò di nuovo in minoranza aprendo la strada a diciotto anni di governi conservatori. Una ipotesi troppo rischiosa, dunque.
Ma queste elezioni dicono anche altro, soprattutto in Scozia. Non c’è stato il trionfo previsto e preannunciato dello Snp il quale, con la bellezza di ventuno seggi persi, sarà costretto a mettere in soffitta l’ipotesi di un secondo referendum sull’indipendenza. Ma la grande incognita rimane Brexit. Chi e come, soprattutto, condurrà questo negoziato è oggi la più grossa incognita nel prossimo futuro sia del Regno Unito che del Regno Unito. A meno di nuove elezioni che, col temporale in arrivano, potrebbero essere il viatico per una situazione più chiara. Forse.