Che elezioni saranno queste che Theresa May, sorprendendo un pò tutti, ha annunciato per l‘8 di giugno in Gran Bretagna è davvero difficile dirlo. Non è tanto in ballo il prossimo inquilino di Downing Street, ma più precisamente il consenso col quale la premier, stando ai sondaggi, varcherà di nuovo la sua residenza di capo del governo di Sua Maestà.
Il principale scoglio, ovviamente, è ancora Brexit e il difficile negoziato che ruota attorno a enormi interessi economici, commerciali e diplomatici. Il previsto tracollo dell’economia britannica, da più parti paventato, non c’è stato, ma non per questo una “hard exit” può rappresentare la via maestra da seguire, e la premier è la prima a saperlo. Senza accordo con la Commissione Europea e soprattutto col Parlamento Ue, che sui negoziati ha addirittura il potere di veto, né la May né l’ancora incerto Junker, infatti, potranno godere di ampi margini di manovra. La questione è, prima di tutto, politica. Nonostante i vari trasformismi che pure hanno caratterizzato la sua ascesa al potere, l’attuale gabinetto è composto, in gran parte, da esponenti che, solo un anno fa, erano schierati per il “remain”. Vederli, stavolta, sostenere un nuovo braccio di ferro con Bruxelles dopo la bruciante sconfitta di un anno fa, rischia seriamente di far perdere di credibilità a una squadra di governo che ancora è incapace di prevedere le tappe da compiere nel prossimo futuro. Gli errori, gli sgambetti e le piccole crisi burocratiche di questi mesi, che hanno visto il governo britannico opporsi alle prerogative del Parlamento, hanno notevolmente indebolito la premier che ora, per tracciare una via definitiva al percorso da intraprendere, è addirittura costretta a convocare le elezioni. Un sintomo di un certo nervosismo che però, almeno per ora, non mette a rischio la sua permanenza a Downing Street.
La sfida, che si preannuncia un pò d’antan, con la May opposta a Jeremy Corbyn (eletto per ben due volte in meno un anno alla guida dei laburisti), per molti osservatori sarà una replica di un film già visto nel corso del decennio thatcheriano, con la Lady di Ferro, pur non fortissima allora, che riuscì a prevalere con un certo margine su Micheal Foot, all’epoca leader dell’opposizione di sinistra. La situazione all’interno del Labour, infatti, non lascia presagire una ricomposizione facile di un partito in crisi di consensi dopo la batosta elettorale firmata Miliband e la mozione di sfiducia a Corbyn. Non solo. L’ondivago appoggio di Corbyn verso il “remain” ha creato una spaccatura senza precedenti con i quadri del partito ancora fedeli alla linea di Blair, pronto, secondo molti notiziari britannici, a tornare in campo dopo la probabile sconfitta del suo successore. Difficilmente, infatti, la sinistra europea si straccerà le vesti per Corbyn, leader mai amato dal gotha della tradizione socialista e socialdemocratica comunitaria.
Ecco come queste elezioni, viste le premesse, si caratterizzano non come una prova di forza della May ma più come un passaggio obbligato per cristallizzare lo status quo e navigare a vista verso il 2019, data prevista per il termine delle negoziazioni che sanciranno la definitiva uscita di scena del Regno Unito dalla comunità europea.
@simsantucci