a cura di Veronica Di Benedetto Montaccini
Nei giorni in cui si celebra il settimo anniversario delle dimissioni di Hosni Mubarak che diedero avvio alla Primavera araba egiziana, il Paese si presenta più che mai in una situazione di profonda instabilità politica, economica, sociale e istituzionale.
La pluralità negata
Finisce in carcere anche il generale Anan, che aveva annunciato la sua candidatura per le presidenziali del prossimo 26 marzo. Anan, ex membro del potente Consiglio supremo militare delle forze armate egiziane (SCAF), visto come l’ultima possibile minaccia alla rielezione dell’attuale presidente, è stato accusato di avere falsificato alcuni documenti necessari per presentare la sua candidatura. E’ solo l’ultima testa a cadere nell’opera di epurazione avviata dal rais egiziano Abdel Fattah al Sisi, che correrà da solo per un nuovo mandato.
Anan è stato arrestato dopo che il precedente principale rivale di al Sisi, l’ex primo ministro egiziano Ahmed Shafiq, si era inaspettatamente ritirato. Dopo l’annuncio, Shafiq era stato però arrestato dalle autorità emiratine, considerate molto vicine ad al Sisi, ed era stato consegnato all’Egitto. Poi aveva rilasciato un’intervista a una televisione egiziana nella quale negava di essere stato sequestrato, come invece sospettavano in molti, e annunciava di avere riconsiderato la sua candidatura alle elezioni: “Non sarei la persona ideale per guidare lo stato”, aveva detto.
La scorsa settimana aveva ritirato la sua candidatura anche Mohamed Anwar al Sadat, nipote dell’ex presidente egiziano Anwar Sadat, ucciso nel 1981 mentre era ancora in carica. Sadat ha parlato di un ambiente ostile a una “sana competizione” politica e ha denunciato episodi intimidatori contro i suoi sostenitori.
Come Giulio Regeni, scomparse più di 5000 persone in tre anni
Nonostante gli sforzi del regime nel presentarsi al mondo con un’immagine positiva di un paese democratico e solido, Il Cairo esprime ancora insicurezze e incertezze che lentamente stanno alimentando nuovi interrogativi sulle reali capacità di al-Sisi di detenere il potere e di poterlo esercitare in modo unico e incondizionato. Come descritto da H. A. Hellyer sul sito dell’Atlantic Council, l’Egitto odierno assomiglia a un “non-regime”, un sistema di potere nel quale esiste una sorta di autocrazia, non sempre coesa e ben definita, che opera in termini di interessi e di espressioni di potere a volte convergenti, altre volte in totale contrasto tra loro. E in questo non-regime tante sono le verità nascoste.
Il caso di Giulio Regeni, il giovane ricercatore scomparso due anni fa in circostanze ancora non chiare, è solo la punta di un iceberg molto più grande. Negli ultimi tre anni in Egitto sono sparite 5.500 persone, con una media di sette/otto al giorno. Al presidio che si tiene in questi giorni davanti all’Ambasciata egiziana a Roma è stata dedicata la ‘Giornata dell’avvocato minacciato’ “alle colleghe e ai colleghi egiziani che subiscono una grave repressione da parte del regime di Sisi”. Secondo il report dei Giuristi Democratici, il 60% delle persone scomparse, “ritorna come imputato in processi, il 35% non torna affatto, scompare del tutto. Il restante 5% torna come cadavere”.
Diritti umani sotto attacco
Molte organizzazioni dei diritti umani, fra le quali Amnesty International, Human Rights Watch, l’IDHAE e la Commissione internazionale dei giuristi, confermano che le autorità egiziane proseguono senza sosta non solo con le intimidazioni, ma anche con la violenza vera e propria a stroncare ogni voce libera e critica.
In Egitto, le conversazioni telefoniche degli attivisti dei diritti umani, degli avvocati, dei politici d’opposizione e dei giornalisti indipendenti, continuano a essere intercettate, mentre la stampa di regime monta campagne d’odio. Si prolunga perciò il più grave periodo di violazione dei diritti umani della storia di quel Paese. Ogni giorno le forze di sicurezza fermano almeno tre o quattro persone.
Il rapporto Amnesty International 2016/2017 denuncia un ricorso eccessivo alla forza, arresti e detenzioni arbitrarie, uso della tortura e processi ambigui. Di fronte a questa situazione, la gioventù egiziana, che è stata la forza motrice della rivoluzione, sembra aver perso la speranza di una vita democratica e libera.
Dopo il rovesciamento del presidente Morsi la situazione è drammaticamente peggiorata. Il governo ha ridotto le libertà di espressione, di riunione e di associazione. Decine di migliaia di oppositori sono stati arrestati e molti sottoposti a tortura. Sono rimasti impuniti gli omicidi commessi dalle forze dell’ordine. A seguito di processi non equi centinaia di persone sono state condannate a pesanti pene detentive o anche a morte. Fra le vittime di tale campagna repressiva, tutti gli oppositori: dagli appartenenti ai “Fratelli musulmani” ai militanti di sinistra e agli attivisti dei diritti umani.
La stretta sull’informazione online
Il 25 maggio scorso il governo egiziano aveva già deciso il blocco in Egitto di 21 siti di informazione con l’accusa di incoraggiamento al terrorismo. Tutti i siti legati in qualche maniera ai Fratelli musulmani e al Qatar hanno subìto il blocco, a cominciare da Al Jazeera e Huffington Post Arabi. Questi blocchi sono stati ordinati contemporaneamente in Arabia Saudita. I paesi del Golfo hanno considerato la visita di Trump uno sdoganamento sulle questioni relative ai diritti umani, sulla libertà di stampa e sulla repressione, si legge su Middle East Eye a proposito della repressione degli oppositori in Bahrein.
Il giornale Al Araby al Jadid, vicino al Qatar e vietato in Egitto, nel dicembre del 2015 usa quasi un tono di amara rivincita: “Gli altri mezzi d’informazione egiziani non immaginavano che la porta era stata aperta e che dopo Al Araby al Jadid altri siti avrebbero fatto la stessa fine. Il regime egiziano sta facendo piazza pulita, per tenere in vita solo qualche piattaforma mediatica che canta le lodi del presidente Al Sisi giorno e notte”.
Oltre alla società civile e ai mezzi d’informazione potrebbe anche essere il turno dei social network. Ad aprile 2017, il giornale Al Youm al Sabaa aveva pubblicato in anteprima una proposta di legge del parlamentare Riyad Abdul Sattar che richiede un’autorizzazione statale per l’utilizzo di Facebook e Twitter.
L’organizzazione Reporteres sans frontières ha definito l’Egitto come “la più grande prigione del mondo per i giornalisti”, e il paese è arrivato al 161° posto (su 180 paesi) nella classifica mondiale della libertà di stampa.
La dipendenza tra militari e politica
In Egitto tutti i presidenti, ad eccezione di Morsi, provengono dalle fila dell’esercito e di fatto sono le forze di sicurezza tout-court (polizia, esercito e intelligence) che hanno sempre influenzato le scelte politiche dello stato. Pur essendo contemporaneamente competitor e alleati, queste strutture multiformi sono state in grado negli anni, soprattutto in quelli recenti, di puntellare il regime, perpetuando un sistema di repressione delle opposizioni politiche e dei movimenti della società civile, favorendo un ritorno ad uno stato di polizia simile alle precedenti esperienze presidenziali e depurando lo stato centrale di tutte quelle forze sociali e politiche in grado di indebolire e/o destabilizzare il sistema.
Si spiegano anche in questo modo le epurazioni condotte dal regime nei confronti della Fratellanza musulmana, la soppressione degli attori non politici come sindacati, movimenti liberali e giovanili, nonché, infine, la scarsa attenzione dimostrata nei confronti delle minoranze beduine e cristiane – queste ultime formalmente più tutelate che in passato ma de facto più discriminate dato l’alto numero di aggressioni e rapimenti nei loro confronti. Alla base di ciò vi è l’intento da parte del potere centrale di impedire alla piazza di assumere forma e prendere forza.
Quel che emerge è l’esistenza di uno Stato politicamente debole, involuto democraticamente e molto fragile al suo interno, nel quale si intravedono all’orizzonte nuove fratture potenzialmente profonde e in grado di destabilizzare ancora di più l’Egitto. Le elezioni di marzo si annunciano solitarie per il presidente al Sisi e pericolose per il Paese.