La crisi nel Golfo Persico potrebbe aprire spiragli ai dissidenti iraniani. Le crescenti tensioni, infatti, stanno rasentando i limiti di un confronto militare tra l’Occidente e l’Iran. La crisi internazionale non è passata inosservata alle schiere dei dissidenti al regime degli ayatollah che operano in funzione anti-governativa e per la restaurazione del rispetto dei diritti elementari nello Stato asiatico.
Migliaia di dissidenti sparsi per il mondo
Sono centinaia di migliaia sparsi per il mondo i cittadini iraniani che hanno abbandonato il Paese, da decenni nelle mani di establishment formate da predicatori d’odio e seminatori di tensioni nell’area mediorientale. In Occidente, soprattutto in Europa, operano diverse realtà che accarezzano il sogno di un ritorno nel Paese liberato dal regime tirannico del clero sciita, auspicando l’avvento di una versione del potere in senso democratico e laico. Tra le varie realtà dell’opposizione in esilio, un posto di assoluto rilievo è ricoperto dal Consiglio nazionale della resistenza iraniana (Cnri), una coalizione fondata nel 1993 e costituita da cinque organizzazioni e partiti di opposizione con il sostegno di numerose personalità politiche e sociali, ex militari, artisti e intellettuali.
Il ruolo dei Mujahedin-e khalq
Uno dei punti cardine del Cnri è rappresentato dall’organizzazione dei Mojahedin-e khalq (i mujahedin del popolo), uno schieramento dichiaratamente “anti-teocratico e democratico” che ha fondato un suo Parlamento e un governo “ombra” in esilio con sede a Parigi, nel cuore dell’Europa. La politica sostenuta dai Mek, inizialmente basata su un’ ideologia di stampo islamo – marxista, ha subito un deciso cambio di rotta con il sostegno a tesi più moderate molto vicine ad una visione socialdemocratica del potere. Iscritti nella black list delle organizzazioni terroristiche all’inizio del nuovo millennio, nel 2009 l’Unione europea ha stabilito di considerare i Mek come una legittima realtà di oppositori al regime teocratico iraniano, decretando la sua cancellazione dall’elenco dei gruppi terroristi seguita, nel 2012, dagli Stati Uniti.
A capo della formazione politica dal 1993, Maryam Rajavi, destinata, a parere dei sostenitori, a divenire prossimo capo di Stato di un Iran liberato dall’attuale regime. Una donna che potrebbe cambiare il destino di oltre 80 milioni di iraniani per troppi anni sottoposti a vessazioni, limitazioni della libertà di movimento e di espressione.
Il Cnri ed il Mek sono impegnati in un programma che auspica una profonda restaurazione dello stato persiano che prescinde dall’instaurazione in Iran di una repubblica democratica con l’abolizione della sha’aria, l’esclusione del clero sciita da ogni carica pubblica, la parità dei sessi e, soprattutto, una totale apertura nei confronti dei Paesi occidentali e di Israele, pur sottolineando la necessità del riconoscimento di uno Stato palestinese.
Maryam Rajavi, un leader donna contro gli ayatollah
Il 13 luglio scorso e per i cinque giorni successivi, si è tenuta a Tirana la conferenza internazionale del Cnri che ha visto la partecipazione di numerose personalità politiche internazionali, tra le quali Rudy Giuliani, ex sindaco di New York, oltre ad altre presenze di rilievo della dissidenza iraniana e a quelle di semplici sostenitori della causa. Il ruolo primario è stato ricoperto da Maryam Rajavi, leader del movimento che, nel suo intervento, ha voluto focalizzare l’attenzione dei convenuti sulle crescenti tensioni internazionali connesse all’atteggiamento “arrogante” del regime di Teheran ribadendo che “chiaramente, il regime sta alimentando le tensioni nel tentativo di respingere la comunità internazionale. Fomentano tumulti e caos per nascondere la loro paura di essere rovesciati“. Una sintesi della realtà riscontrabile anche in relazione alle continue ingerenze del regime iraniano nei paesi della regione, in primis Siria e Libano, estese anche a livello globale, incluso un tentativo di attentato dinamitardo contro i membri del gruppo Mek ad Ashraf 3, una sede del Cnri in Albania.
“Tuttavia, la realtà, è che le divisioni e l’instabilità sono tra i segnali che il regime è al suo atto finale. Il regime clericale non troverà una via d’uscita dalla sua inevitabile caduta”, ha concluso la Rajavi.