Una ogni tre ore. E non è una prescrizione medica. E neanche il palmares delle prestazioni sessuali da esibire agli amici. È il numero delle aggressioni subite dagli uomini delle nostre Forze dell’Ordine. Poliziotti, carabinieri, finanzieri e uomini della Polizia penitenziaria.
Calci, pugni, addirittura morsi. Episodi di violenza a cui spesso devono sottostare senza batter ciglio. Nessuna tutela per gli uomini in divisa. Anzi. Se un fermato starnutisce è colpa loro. Se un detenuto dà in escandescenza è da imputare sempre ai metodi “fascisti” degli agenti, quando non si ricorre all’infermità mentale per sollevare l’aggressore da ogni responsabilità.
Sulle divise, quelle che spaventano tanto Michela Murgia, la scrittrice sarda che ogni tanto ci tiene a ritagliarsi un quarto d’ora di notorietà imbastendo quattro baggianate sui social, pende sempre la spada di Damocle del reato di tortura.
Un capolavoro dei giorni nostri.
Guai a sforforare vicino ad un carcerato o a un rapinatore colto in flagrante. C’è da passarci i guai.
E allora siamo costretti ad assistere a scene, come quella dell’aggressione subìta dall’inviato di Striscia la notizia, Vittorio Brumotti. Dove i carabinieri accerchiati da spacciatori e fiancheggiatori hanno messo le mani dietro al proprio corpo come a dire “non vi sto toccando”.
Un’immagine che ferisce. Assai.
E anche l’emergenza Covid ha messo a dura prova il lavoro degli operatori di polizia.
In prima linea nei controlli, nelle manifestazioni e sempre alle prese con la repressione del crimine che non si ferma davanti a nessuna pandemia.
E pure lì attacchi fisici e verbali agli uomini in divisa.
E torna in auge il mai sopito “celerino figlio di puttana”.
Cori sessantottini rispolverati all’occorrenza. E violenze in piazza.
Ma ora la misura è colma.
E diverse sigle sindacali, Sinafi, Unarma, Siulp, Fsp Cisl e SIAMO Esercito, con una raccolta firme chiedono una legge di iniziativa popolare che tuteli il loro lavoro e che preveda la reclusione o lo svolgimento di lavori socialmente utili per chi aggredisce gli uomini delle Forze dell’Ordine.
E onestamente, perdonate il gioco di parole, è il minimo sindacale.
Anche perché a parti rovesciate la narrazione è stata spesso deviata allo scopo di santificare l’aggressore.
In maniera indegna.
Come quella volta.
Quando raggiunse l’apoteosi.
Vent’anni fa.
A Genova.
In piazza Alimonda.
Quell’estintore che tutti, o comunque molti, considerarono un dettaglio.
Irrilevante per i compagni che vollero fare di Carlo Giuliani un eroe. E del carabiniere, Mario Placanica, un carnefice.
E Rifondazione Comunista, che a suo tempo, volle addirittura intitolare a Giuliani un’aula al Senato.
Con l’assenso dell’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, quello che non disdegnò l’intervento dei carri armati russi in Ungheria. Lì l’intervento militare sui rivoltosi meritava l’applauso.
Ma questa è un’altra storia.
Quel riconoscimento a Carlo Giuliani, a ricordare la vergogna di uno Stato che non muove un dito per difendere i suoi servitori, ma è solerte ad attaccare targhe in ricordo dei criminali.