C’è un elemento che stupisce particolarmente, quando si parla di fine vita: spesso tutto il dibattito si esaurisce in un conflitto politico che va anche al di là dei principi etici. Principi che comunque possono e devono essere il substrato di ogni confronto che riguardi un tema così importante come quello della vita. Capita quindi che, così come per le tantissime storie raccontate in esclusiva da Ofcs Report di malati che chiedono di poter morire, vi siano altrettante invisibili persone che hanno visto in faccia la morte, hanno lottato e ce l’hanno fatta.
È successo a Sylvie Menard, ricercatrice oncologica, allieva di Umberto Veronesi, una vita ad assistere i malati terminali e poi improvvisamente alle prese con un male incurabile che ha combattuto, nonostante la voglia di mollare. È successo recentemente ad un giovane romano, 28 anni di nome Roberto. La sua storia è di quelle “invisibili” che tuttavia contengono un gran significato, perché hanno il merito di arricchire il dibattito sul testamento biologico con fatti di vita vissuta e sofferta che spesso superano i pur importanti studi scientifici.
La vita di Roberto, raccolta grazie a Pro Vita Onlus, è la testimonianza di un figlio che non si sarebbe mai dovuto risvegliare dal coma e di una madre che non si è rassegnata a lasciarlo morire. “Nel 2007 – ci racconta Roberto – ho avuto un grave incidente con il motorino. Stavo scendendo da Frascati con la mia ex ragazza e una macchina ha fatto un’inversione a “U” a doppia striscia, investendomi. Sono caduto violentemente a terra sbattendo la testa. La mia ragazza mi ha chiamato e io inconsciamente sono riuscito ad alzarmi ma mi è mancato l’ossigeno al cervello, sono caduto a terra e sono finito subito in coma”. Un racconto lucido, fatto con la voce di chi ancora porta e porterà i segni di quel tragico incidente, ma che comunque lascia intendere quanta tenacia abbia accompagnato il viaggio terribile di Roberto, appeso molti giorni tra la vita e la morte.
“Con quello che mi è accaduto la vita adesso l’apprezzo di più, anche con tutte le difficoltà. È vero, la vita mi ha fatto questo brutto tiro mancino ma gli ho risposto a tono grazie a mia madre che mi è sempre stata vicino e non mi ha mai tradito, non ha mai dato retta ai dottori che gli dicevano di staccare la spina quando io ero in terapia intensiva. La ringrazierò per tutta la vita. È grazie a lei che io sono vivo”.
È proprio la mamma, la signora Manola, 48 anni, a spiegarci passo passo come è stata dura vivere quei momenti. “La ragazza di Roberto riportò solo dei punti di sutura sulla fronte, mio figlio invece fu controllato meglio e portato d’urgenza al San Giovanni di Roma. Rimase in coma per 20 giorni naturali e per un mese in coma farmacologico e il mio medico di base mi disse di fargli ascoltare la musica che comunque aiuta”.
Un gesto, quello della musica consigliato da tanti esperti, un modo come un altro per tenere vivo il contatto con il proprio caro assistito. Ma al San Giovanni, afferma con grande amarezza Manola, “non tutti capivano il mio tentativo disperato di parlare e mantenere vivo un contatto con Roberto. Un giorno un’infermiera mi disse: cosa gliela fai ascoltare a fare, tanto è morto e non ti sente. Mi ha fatto malissimo ma io ho continuato”. Ma l’infermiera non era l’unica a tentare di convincere Manola a lasciar andare il suo Roberto. “Prima di un intervento i medici vennero da me insistendo per farmi firmare la donazione degli organi di mio figlio. Io, che ero in stato confusionale, ebbi la forza di dire no, perché Roberto era ancora vivo ed ero certa che ce l’avrebbe fatta”.
Così fu. Quella ferita inferta sopra un dolore già così profondo non scalfì in alcun modo la forza e il coraggio della mamma. “Un giorno, mentre facevo con mio figlio un gioco con le dita, pollice e indice, lui mi ha risposto e mi ha stretto forte il pollice e da lì abbiamo continuato fino a che non ha aperto gli occhi”, racconta commossa Manola. “È stata la gioia più grande della mia vita. C’è sempre una speranza, bisogna crederci e non bisogna lasciarsi andare”.
Oggi Roberto non si sente un eroe, né un esempio per i tanti malati che lottano con la vita, “purtroppo non posso fare niente per loro, posso solo dirgli di non mollare e di sperare sempre”, afferma. Naviga su internet come i suoi coetanei e si è iscritto ai vari trova lavoro, ma, conclude con grande amarezza Manola, “la società non ti permette di rientrare, nessuno ti trova un lavoro, ogni giorno ci sono barriere enormi per farlo reinserire nella società, addirittura non riesco a trovargli una scuola per fargli completare il ciclo scolastico”.
La storia di Roberto dimostra che ragionare sul Testamento Biologico significa anche saper guardare oltre il fine vita delle persone e impegnare le Istituzioni a garantire diritti e assistenza a tutti quelli che sono meno fortunati e lottano ogni giorno con la malattia o con i gravi segni che questa può lasciare su loro e su chi li assiste ogni giorno.
@PiccininDaniele