Se qualche anno fa qualcuno avesse proposto a Kristina Hodgetts di partecipare a una conferenza contro l’eutanasia lei avrebbe certamente strabuzzato gli occhi. Per lei, infermiera dell’esercito canadese, poi direttrice degli infermieri in una casa di cura, assistere alla sospensione dell’idratazione ai pazienti in fine vita è sempre stato un normale atto quotidiano. Una routine nel “dare la morte” andata avanti per anni, fatta “in buona fede e per ridurre il dolore”.
La sua testimonianza è stata raccolta nel corso di una conferenza stampa organizzata da Pro Vita Onlus, martedì 6 giugno presso la sede della Stampa Estera a Roma. Un incontro a cui hanno partecipato Toni Brandi, presidente di ProVita onlus, Alessandro Fiore, portavoce dell’associazione, e Christopher Warde-Jones, segretario della Stampa Estera, che ha moderato il dibattito.
Il racconto di Kristina è una fotografia di come “l’indifferenza ci rende uomini peggiori. I pazienti per noi non erano più persone. Parlavamo davanti a loro come se non esistessero, i paramedici controllavano le direttive anticipate prima di rianimare o no il paziente, solo per proteggersi dalle potenziali responsabilità. Ricorrere all’eutanasia era diventata normale amministrazione. Avevamo perso il vero senso del nostro lavoro”, ammette abbassando gli occhi sul tavolo.
I primi dubbi sul suo operato avvolgono Kristina quando ha a che fare con una donna fragile e anziana. Si comincia con il ricovero, poi la perdita di coscienza e la ricetta del medico: “morfina e sospendere cibo e acqua”. Infine le frasi delle colleghe: “speriamo muoia prima di svegliarsi di nuovo”. Non era crudeltà, afferma Kristina. “Eravamo tutti convinti che fosse la cosa migliore”. Solo che la signora non vuole morire. Succhiava acqua dalla spugna appoggiata alle labbra. Quella donna impiegò nove giorni a trapassare, “a morire di sete e fame”. A Kristina rimasero impresse le parole di una giovane collega del turno di notte: “Che cosa stiamo facendo?”.
Un episodio dietro l’altro, prosegue l’infermiera. Anche questa volta a finire nel “girone della morte” è una donna anziana, colpita da un piccolo ictus. “Una figlia disperata, un figlio, unico fiduciario, che avalla la decisione di interrompere tutti i trattamenti. La figlia rimase al fianco della madre finché i polmoni non affogarono nella morfina”. È qui che Kristina dice “basta” e comincia ad avere rimorsi di coscienza. “Non è giusto togliere la vita a un essere umano. Non è giusto decidere quando deve morire. Ci sono altri modi di affrontare il dolore che non siano sopprimere e togliersi il pensiero”, sono i pensieri che le passano per la testa, anche se a farle cambiare definitivamente idea è un’altra vicenda, personale, che sta per accaderle.
Dopo aver passato una vita ad assistere le persone “accompagnate” a morire, un’altra prova, la più difficile, stava per chiamarla all’appello: “Ritrovarsi dall’altra parte del letto, in coma”. Non fosse stato per il marito “avrebbero ucciso anche me”, dice Kristina. Solo dopo il risveglio, è iniziata per lei una nuova vita: una missione di racconto nella Coalizione per la prevenzione dell’Eutanasia (di cui oggi è vice presidente). Oggi, nonostante la paresi parziale, è impegnata a raccontare la sua storia e, soprattutto, la sua paura che anche in altri Paesi avvenga quello che ha visto accadere in Canada.
“La storia di Kristina è un monito che tutti dovrebbero ascoltare per evitare che con la legge sul Testamento Biologico si commetta anche in Italia l’errore di trasformare la morte in routine amministrativa”, attacca Toni Brandi, presidente di Pro Vita Onlus, da sempre in prima fila nelle battaglie contro l’eutanasia e in difesa della vita.
“Negli ultimi tempi, con l’approdo al Senato del testo di legge sulle Disposizioni Anticipate di Trattamento, si sta facendo molta confusione su questo tema nel dibattito pubblico, alimentando la diffusione di una vera e propria cultura della morte”.
Per il presidente di Pro Vita “il paradosso di questa legge si palesa di fronte a un concetto tanto semplice, quanto chiaro e insindacabile: nessuno ha la sfera di cristallo per sapere in anticipo come reagirebbe di fronte a una malattia grave o a una disabilità. Molto spesso, quando ci si trova in queste situazioni estreme, le prospettive cambiano e si manifesta un forte, naturale desiderio di vivere. Di fronte a queste considerazioni, come si può pensare di affidare a un pezzo di carta il proprio futuro anche a lungo termine? Firmando le Dat – ha concluso Brandi – si rischia di commettere un errore irreversibile, scontandone le conseguenze soltanto nel momento in cui sarà impossibile fare un passo indietro”.
A contestare punto su punto il ddl è stato Alessandro Fiore, portavoce di Pro Vita, che ha illustrato un documento con i punti critici del testo di legge in discussione al senato. “Il ddl opera una rivoluzione rendendo il diritto alla vita un diritto praticamente disponibile. In più vincola i medici e le strutture sanitarie anche quando le volontà del paziente porterebbero direttamente alla sua morte, quindi anche quando per lo stesso comportamento il medico sarebbe oggi penalmente responsabile, senza nemmeno prevedere l’obiezione di coscienza”, spiega Fiore.
Riguardo alle Dat, rispondendo a chi vorrebbe che l’Italia stesse al passo degli altri paesi europei, Fiore nota che in realtà nessuno dei più importanti paesi del vecchio continente prevede delle “disposizioni anticipate” generalmente vincolanti. “Persino nei paesi che hanno introdotto l’eutanasia, come l’Olanda, il Belgio e il Lussemburgo, il testamento biologico non vincola il medico”, afferma il portavoce di Pro Vita.
In ogni caso, conclude il documento, “uno dei punti più gravi contenuti da questa legge è il fatto che venga surrettiziamente introdotta una forma di eutanasia omissiva non consenziente per i minori e le persone incapaci. Se questa legge passasse – conclude Fiore – diventerà possibile che il rappresentante e il medico facciano morire di disidratazione un minorenne che non abbia espresso alcuna volontà di morire”.
@PiccininDaniele