L’Isis sconfitto vuole la rivincita. In tempi non sospetti, nel febbraio scorso, avevamo trattato la riorganizzazione della jihad da parte del network legato ai miliziani dell’ex Stato islamico guidati da Abu Bakr al Baghdadi ipotizzando che questo riordino logistico-operativo risultasse completamente avulso dalla perdita di territori già occupati nei teatri di guerra siro-irakeni. La tesi avanzata era quella di una ripartenza delle attività terroristiche a partire dalle zone di “afflusso degli jihadisti reduci dalla Siria” e “individuate nel Sinai egiziano, nella Libia meridionale e lungo il confine iracheno”, idonee a condurre attacchi mirati contro le truppe dell’alleanza anti-Califfato o blitz contro gli interessi Occidentali.
Quanto segue è l’analisi degli ultimi segnali di ripresa dell’ex Califfato che paiono ricalcare quanto anticipato.
Il Pentagono ammette la rinascita dell’Isis
Negli ultimi giorni, il vicepresidente del Joint Chiefs of Staff, Paul Selva, ha ammesso di avere informazioni circa il consistente germogliare della presenza dello Stato Islamico nel sud della Libia, soprattutto da quando l’uomo forte Khalifa Haftar ha iniziato la sua sanguinosa marcia su Tripoli più di due mesi fa. Nel contempo, analoghi segnali giungono da Iraq e Siria dove la popolazione, soprattutto quella di credo sunnita, lamenta condizioni socio-economiche allo sfascio che potrebbero portare a realtà non dissimili da quelle che favorirono l’avvento dello Stato Islamico nel 2014. Una situazione che si reitera anche nel Sinai egiziano, dove il caposaldo per i continui attacchi contro l’esercito di Al Sisi è stato individuato, e da tempo, nella città costiera di el Arish.
Ma ciò che preoccupa la comunità internazionale è la capacità di rinascita dell’Isis, soprattutto nelle zone contigue ai territori già occupati dai miliziani di al Baghdadi, soggette a continui attacchi portati contro le truppe della coalizione e la popolazione civile. Lo Stato islamico ha ordinato il trasferimento di numerosi miliziani, e relative famiglie, nelle aree circostanti le città di Raqqa, Mosul e altri centri nevralgici dai quali sono partiti i blitz diretti, in particolare modo, contro le truppe statunitensi. In parallelo, l’Isis ha preservato intatta la capacità di auto-finanziarsi e di celare gli armamenti necessari a condurre una vera e propria insurrezione con il contributo di alcune frange della popolazione locale.
Segnali di allarme per l’Europa
L’allarme, già di per sé elevato, è accresciuto dalla riconosciuta capacità dell’Isis di condurre, in contemporanea, campagne di attacchi sia nei territori residuali in suo possesso sia all’estero, con il rischio che questa strategia a lungo termine possa condurre a una nuova ondata di attentati anche in Europa. Nel marzo scorso, a tale proposito, all’interno di un hard disk abbandonato da miliziani in fuga nel nord della Siria, sono stati trovati documenti relativi ai progetti di nuovi attacchi “in scala” da condurre in Europa con cellule operative già stanziate nel nostro Continente. Il pc nel quale erano contenuti i files è stato rinvenuto, abbandonato da miliziani dell’Isis in fuga, dalle truppe curde e da militari americani,
Nel successivo mese di maggio di quest’anno, in effetti, lo Stato Islamico ha dichiarato l’inizio di una nuova campagna globale di terrore dando ordine ai suoi miliziani di creare diversivi con l’occupazione di piccole aree di territorio nel teatro medio orientale che distolgano l’attenzione della coalizione internazionale dai reali obiettivi e possano, comunque, risultare utili a condurre agguati contro le truppe degli infedeli.
In chiave prospettica, si prevede una crescita esponenziale delle azioni di guerriglia da parte dell’Isis, anche considerando che i territori riconquistati dall’alleanza anti-califfo non godono nè di stabilità nè, tantomeno, di sicurezza. Lo Stato Islamico, peraltro, ha da tempo messo in atto una sistematica politica di eliminazione dei leader anti-Isis locali, sia in Iraq che in Siria, con l’obiettivo di fiaccare la resistenza della popolazione alimentando, nel contempo, la totale sfiducia nei governi dei due Stati.
L’Isis e il fronte del Sahel
Un ulteriore allarme proviene dal fronte del Sahel dove gli jihadisti hanno stabilito forti legami con le mafie locali prosperando con il traffico di armi, droga ed esseri umani. Lo Stato Islamico, così come le cellule di al Qaeda e i loro alleati, da Boko Haram agli Shaabab somali, rappresentano una minaccia costante per gli interessi occidentali nel Continente nero. Il legame indissolubile creatosi tra gli jihadisti e la gestione dei flussi migratori diretti in Europa, inoltre, dovrebbe rappresentare un ulteriore warning rispetto alla possibilità che tali traffici possano mascherare il trasferimento di miliziani in Occidente mimetizzati tra gli emigranti. L’espansione dell’offensiva degli jihadisti spazia da est a ovest, partendo dal Mali per giungere in Mozambico e Somalia, non sottovalutando la guerriglia posta in atto in Burkina Faso, Niger e Tanzania. In tutti i Paesi citati si segnalano presenze più o meno consistenti di miliziani legati ad al Qaeda o all’Isis, questi ultimi impegnati nella creazione delle Wilayat, le province del Califfato, dove poter instaurare l’osservanza della Sha’aria in danno della popolazione locale.
Il centro-sud della Libia infestato dall’Isis
In apparenza i due governi operanti nel Paese nordafricano, quello di Tripoli guidato da Fayez al Serraj e quello di Bengasi sotto l’egida del generale Khalifa Haftar, impegnati a combattersi vicendevolmente, stanno sottovalutando la presenza delle numerose cellule legate allo Stato Islamico che, proprio nel centro-sud del Paese, hanno trovato nuova linfa per la loro riorganizzazione. In virtù dell’insperato conforto fornito dalla rivalità tra i due leader libici, i miliziani sono riusciti a stringere alleanze con le tribù beduine della zona meridionale del Paese e tratto giovamento economico dai traffici di esseri umani in transito verso le coste libiche. Nelle fila degli jihadisti militerebbero anche numerosi soggetti con trascorsi nel nostro Paese che hanno contribuito, in modo decisivo, alla rinascita della minaccia terroristica in Libia e Tunisia successivamente alla caduta di Muhammar Gheddafi e Zine el Abidine ben Alì. Mentre in Tunisia sono riusciti a ricreare una rete temibile, soprattutto nell’ovest del Paese, capace di condurre blitz oltre il confine algerino non trascurando occasionali sortite nel sud e, come di recente nella Capitale, in Libia le fazioni legate ad al Qaeda, e soprattutto all’Isis, stanno serrando i ranghi dei miliziani per condurre azioni ben più consistenti finalizzate alla conquista di territori e di uno sbocco sul Mediterraneo.
Il minaccioso ritorno dei foreign fighters
Da non sottovalutare anche i timori, palesati in più di un’occasione, per il rientro nei paesi di appartenenza dei foreign fighters reduci dai vari teatri di guerra, così come quello dei miliziani detenuti e successivamente liberati dalle milizie curde nel nord della Siria che rappresentano delle vere e proprie bombe ad orologeria. Il quotidiano britannico “The Guardian”, nel gennaio scorso, ha pubblicato le dichiarazioni del segretario generale dell’Interpol, Jurgen Stock, che a proposito del fenomeno dei foreign fighters, aveva dichiarato che “potremmo presto affrontare (in Europa – ndr) una seconda ondata di altri individui islamici collegati o radicalizzati che potresti chiamare Isis 2.0. Molti di questi sono sospetti terroristi o coloro che sono legati a gruppi terroristici come sostenitori che devono scontare da due a cinque anni in prigione. Poiché non sono stati condannati per un attacco terroristico concreto ma solo per il sostegno ad attività terroristiche”. Questa generazione di ‘sostenitori ‘ che verrà rilasciata nei prossimi anni, sempre secondo il parere di Stock, potrebbe costituire la base per la riorganizzazione di nuove cellule terroristiche o comunque ritornare ad esserne dei fiancheggiatori, anche considerando che il fenomeno della radicalizzazione in carcere è diffuso in tutto il continente europeo.
L’Interpol, per le sue attività di contrasto al terrorismo, si avvale di un database contenente le identità di circa 45.000 sospetti jihadisti stranieri e, tra questi, i cosiddetti “rimpatriati” che costituiscono una seria preoccupazione per le agenzie di intelligence europee. Inoltre, il segretario dell’Interpol ha rivelato il progetto di sviluppo di un database internazionale di informazioni biometriche che consenta ai 194 paesi membri di identificare terroristi e criminali sospetti, sottolineando l’importanza di tale innovazione per l’individuazione dei combattenti stranieri dell’Isis che hanno intrapreso la via del ritorno dalla Siria o dall’Iraq verso l’Europa. Stock ha evidenziato anche che “con l’Isis sconfitta geograficamente, questi soggetti cercheranno di trasferirsi in altre aree di conflitto nel sud-est asiatico, o in Africa, o rimanere in Europa per effettuare attacchi”.
Un quadro sufficientemente esaustivo che non può consentire di abbassare la guardia considerando il periodo di relativa tranquillità vissuto in questi mesi in Europa. La minaccia terrorista è incombente e la sua sottovalutazione potrebbe condurre a una nuova campagna di delirante follia jihadista, peraltro preannunciata con largo anticipo dal leader Abu Bakr al Baghdadi.