Terrorismo islamista: un’analisi fenomenologica quanto mai attuale
In questi giorni stiamo facendo i conti con eventi che a volte vengono sottovalutati dal grande pubblico. L’appuntamento dei Giochi olimpici di Parigi, notoriamente conosciuto dagli analisti come un target pragmatico ed anche simbolico della nostra civiltà da parte degli islamisti, inizierà questa sera con la rituale cerimonia di “apertura”. Eppure da giorni l’Europa, dall’Irlanda, all’Inghilterra, alla Francia o alla Spagna, si trovano in uno stato d’assedio senza eguali.
La popolazione è sottoposta ad un afflusso di clandestini senza eguali nella storia, soggetti fuggiti in Europa poiché ex detenuti, delinquenti comuni o, comunque estranei alla loro stessa società di origine, quasi tutti di sesso maschile (il 95%…) e senza il “privilegio” di potersi ritenere profughi o rifugiati. Infatti, a quanto risulta, la maggioranza degli “approdati” sulle coste del Continente, provengono da Paesi africani dove non sussistono i rischi legati a conflitti, dal Maghreb alla Nigeria passando dal Senegal.
Eppure la politica non si muove, mentre i soliti “utili idioti” corrono a perorare la causa dell’ultimo arrivato incoscienti di ciò che questo potrebbe comportare per la nostra società.
Il terrorismo islamista, non islamico poiché il credente dell’Islam che rispetta il nostro modo di vivere e le leggi del paese che lo ospita è ben accetto poiché non intende certo nuocere ad alcuno, ha colto, invece, nel segno: il bacino dell’immigrazione clandestina dal quale attingere a piene mani tra le folle di rivoltosi, di specialisti del caos e tra i delinquenti comuni.
Noi ci troviamo di fronte al rischio di essere travolti da quest’ondata di violenza e arroganza insensate senza colpo ferire, a meno di non essere colpiti in prima persona.
Appurato quanto sta accadendo, tentiamo di fornire una spiegazione plausibile che possa delineare il quadro che si prospetta per il nostro avvenire.
IL RUOLO DELL’EMULAZIONE
Le bande giovanili, le gang, che imperversano nei nostri territori, rimangono quasi sempre impunite o, nel migliore dei casi, condannate a pene risibili, provocando una reiterazione continua di reati comuni o, comunque, danneggiando il quieto vivere della popolazione autoctona.
Proprio in questo contesto si inserisce l’attività dei gruppi terroristi che, comprendendo appieno la volontà di ribellione dei giovani, forniscono loro una garanzia di “essere ricordati” ed emulati dai loro accoliti.
Nei giovani per spirito di un gesto che li renda “idoli”, eroi del gruppo pur nell’inconsapevolezza che il “martirio”, seppur preannunciato, possa in qualche modo essere evitato con l’innesco di un ordigno comandato manualmente ma a debita distanza dall’attentatore. Tuttavia, in più di un caso, è sussistita, nell’incoscienza del prescelto, la presenza di un osservatore che, denotata qualsiasi forma di remora, è comunque pronto ad azionare il meccanismo d’innesco dell’ordigno a distanza.
Nei giovani, come nel caso della strage del Bataclan del 2015 a Parigi, gli attentatori avevano assunto forti dosi di Captagon, anche chiamata la droga della Jihad, prodotta nella maggioranza dei casi, in Siria, sotto l’egida dell’Iran, a beneficio sia dei terroristi dell’Isis, sia anche delle cellule presenti ed operanti in Occidente, ed Europa in primis.
IL CANDIDATO ALLA MILITANZA
Un missionario reclutatore ha un primo contatto con il soggetto dedito ad attività illecite e lo esorta reincanalarsi nei canoni della Sha’aria. Valutato il soggetto, lo invita alla frequentazione saltuaria del luogo di preghiera; rivalutato il soggetto, lo convince all’osservanza quotidiana dei doveri del Musulmano; Solo successivamente si accenna al soggetto quali siano le finalità della Jihad e valuta le reazioni del medesimo, invitandolo presso i locali comuni utilizzati per l’indottrinamento dove incontra altri “aspiranti”. A tal punto si procede alla rivalutazione del soggetto e, ritenutolo idoneo, lo invia presso una scuola Coranica dove viene sottoposto a una sorta di re-indottrinamento sul Jihad e lo si acconsente al giuramento di fedeltà al combattimento (Bayat). A questo punto il soggetto viene valutato e, se giudicato idoneo, incorporato in una cellula differente da quella del reclutatore.
Gli aspiranti “martiri” sono assoggettati dall’organizzazione a seguito di un iter reclutativo che sottopone i soggetti a diverse sollecitazioni di carattere psicologico, quali le seguenti:
- PRESSIONE SOCIALE, inganno, manipolazione mentale; le sette utilizzano speciali tecniche sociali e psicologiche che distorcono le credenze, gli atteggiamenti e le percezioni dei membri;
- DISSONANZA COGNITIVA: una volta che hanno adottato un modo di vivere deviante, marginale e costoso, i membri sono riluttanti ad ammettere, anche solo di fronte a se stessi, di avere sbagliato;
- DIPENDENZA: avendo abbandonato il mondo (cioè il proprio denaro, carriera, amici e famiglia), i membri non sanno più dove andare;
- ODIO: i membri sono stati indottrinati a odiare il mondo secolare, a non fidarsi dei loro precedenti amici e a temere le loro famiglie;
- AUTO-INGANNO: gli adepti si rifiutano di vedere la realtà e sperano che presto o tardi anche dottrine che sembrano false si riveleranno vere;
- DESIDERIO DI ESSERE RICONOSCIUTI E PREMIATI, sia all’interno del gruppo, sia dopo la morte, in paradiso;
- COSTRIZIONE, MINACCE, VIOLENZA: i membri non possono scappare né comunicare con gli estranei, e comprensibilmente temono la punizione che li aspetta ove tentino di fuggire.
Questo esempio di reclutamento è tratto da studi ed analisi approfondite su cellule terroristiche di alto livello, con particolare riferimento all’Isis o ad Al-Qaeda, mentre, il reclutamento “rapido” viene posto in atto laddove già sussistano condizioni ambientali e di urgenza che portino i “reclutatori” ad avvalersi di giovani già di per sé dediti ad atti criminali o di semplice teppismo contro il Paese ospitante.
In tutto ciò si potrebbe rilevare che i popoli arabi, maghrebini in particolare, con il passare del tempo abbiano accumulato un livello enorme di acredine nei nostri confronti e, consci della loro debolezza economica, politica e militare, abbiano riversato le proprie forze e le proprie braccia giovanili nei movimenti integralisti votati alla Jihad contro l’Occidente; qui hanno trovato la forza e la coesione necessarie a combatterci.
L’ATTO TERRORISTICO
Dovremmo chiederci: perché sentono di dover agire in questo modo?
Le risposte possiamo racchiuderle in un semplice elencazione:
. I radicali sono tutti ostili a qualsiasi compromesso
. Agiscono tutti come se detenessero l’unica e sola verità
. Ricorrono alla violenza e legittimano tale ricorso per raggiungere i loro fini
. Sono tutti intolleranti nei confronti della differenza e della dissidenza
. Tutti demonizzano l’avversario nei loro discorsi e vedono in lui il male assoluto
“Il movimento jihadista si organizza, impara dai propri errori e acquisisce una dimensione internazionale che non cessa di affermarsi. L’eccessiva esposizione mediatica delle sue azioni gli permette altresì di imporsi alle tendenze concorrenti dell’Islam politico e di reclutare un numero crescente di combattenti anche nello stesso Occidente.”
Nulla viene lasciato al caso. I piani per le azioni terroristiche, soprattutto quelle perpetrate o da attuare in Occidente, vengono studiate a tavolino dagli specialisti dei maggiori gruppi islamisti. Ogni elemento viene esaminato da un insieme di tecnici che vanno dagli artificieri, agli informatici, agli armieri e, non ultimo dagli strateghi del terrore.
Infatti, il primo punto da affrontare è la motivazione dell’azione, cioè, se essa sia una reazione ad una provocazione esterna da parte di un determinato paese, o se faccia parte di una più ampia strategia di espansione. In ciò, il ruolo principale è ricoperto da imam, quasi sempre autoproclamati o eletti dai seguaci del gruppo, che dalla loro personale esegesi del Corano, traggono spunti per giustificare le azioni che il l’organizzazione si è prefissata e fornire una legittimità religiosa.
Individuato il territorio ove agire, i tecnici provvedono a stilare una lista di target che potrebbero “soddisfare” le aspettative dei “capi”. Tali obiettivi rispondono alle esigenze del “simbolismo” (monumenti, musei, chiese, sedi di governi …) o del “pragmatismo” (stragi, attentati ai trasporti, ad aeroporti, stazioni, porti …).
Nel primo caso l’intento è quello di instillare la consapevolezza negli avversari, di poter giungere ovunque e di poter colpire al cuore del paese in ogni momento; nel secondo caso, invece, si segue quella che viene definita la “strategia del terrore”, finalizzata a creare panico, insicurezza e sfiduci negli organi delegati alla protezione dei cittadini. Ruolo non secondario è rivestito anche dalla scelta di un giorno particolare (feste natalizie e Pasqua per i cristiani, Shabbat, Yom Kippur, Pesach per la popolazione di credo ebrai) che possa mostrare la superiorità dell’Islam rispetto alle altre religioni ed alle loro ricorrenze.
Il passo successivo è la vera pianificazione dell’attacco. Comprende la scelta sull’utilizzo dei cosiddetti “martiri”, consapevoli di andare incontro a morte certa in nome dell’Islam, o di mujaheddin addestrati anche all’esfiltrazione, ovvero, alla fuga successiva all’azione dei responsabili.
La pianificazione degli attentati, ad opera dissimulata dall’Iran, è, ovviamente, successiva all’individuazione dell’obiettivo o degli obiettivi da colpire, solitamente in simultanea. Nei piani dei terroristi convergono più voci: dal posizionamento di ordigni, all’utilizzo di veicoli-bomba, alla sparatoria, al dirottamento di aerei o navi, il tutto congegnato in modo da arrecare al “nemico” i maggior danno con il minimo sforzo. Per un tipico attentato, i grandi gruppi jihadisti, hanno preso spunto da Al Qaida.
Infatti siffatta organizzazione è solita usare 4 gruppi di uomini. Una squadra di “mujaheddin” viene utilizzata per i sopralluoghi ed per l’identificazione visiva del potenziale bersaglio; redige successivamente un rapporto che viene analizzato dai responsabili dai capi cellula selezionati (i quali costituiscono il secondo gruppo). Quando viene dato il via libera all’attacco, i capi cellula mandano un altro gruppo che fornisce il necessario per attaccare il bersaglio. Quando il terzo gruppo termina il suo compito, si allontana. A sferrare l’attacco vero e proprio viene mandato il quarto gruppo, l’unico a partecipare direttamente all’azione. In alcuni casi si è riscontrata la presenza di un quinto gruppo, detto di osservatori, incaricato di azionare manualmente i giubbetti esplosivi nei casi di esitazione da parte degli operativi e di informare i capi cellula sugli esiti dell’attacco.
Gli specialisti provvedono anche alla logistica, intesa come la dotazione di armamenti specifici o di congegni esplosivi manuali o a tempo, a seconda dell’occorrenza, nonché al trasporto dei mujaheddin sui luoghi prescelti ed alla fornitura di documenti.
Nell’imminenza delle azioni, i prescelti effettuato i rituali previsti, storicamente patrimonio dei soldati del califfato prima di ogni battaglia. Dapprima il”martire” (Shahid) compila il testamento che, successivamente andrà ai parenti più prossimi o, secondo le volontà del mujahed, all’organizzazione madre; segue il pagamento di eventuali debiti contratti, in questo sostenuto dal capo cellula che provvede ad eventuali integrazioni di denaro; successivamente compie le abluzioni, indossa indumenti puliti (che solitamente comprendono almeno un capo di biancheria o un sudario in cotone egiziano), effettua una completa rasatura del corpo (i peli sono segno di impurità al cospetto di Dio), compie, insieme agli altri componenti del gruppo una preghiera comune ed infine pone il Corano nella tasca sinistra dell’abito o giacca indossati.
Non pare essere una “bufala” la notizia dell’utilizzo di anfetamine tipo”Captagon” da parte dei prescelti più deboli, soprattutto quelli di giovane età, che potrebbero esitare proprio nell’imminenza delle azioni.
L’azione viene compiuta e portata a termine nella consapevolezza di essere nel diritto di eseguirla, ricoprendo un ruolo quasi da giustiziere, ed è effettuata da individui infarciti di odio e disprezzo verso le vite umane che stanno per spezzare. In questo, il ruolo svolto dai già citati imam nell’indottrinamento, soprattutto dei votati al martirio, ricopre una parte fondamentale per la buona riuscita degli attacchi. Il mujahed agisce in uno stato di trance, sicuro di potersi avvicinare a Dio e di godere di benefici incommensurabili. Alla sua famiglia provvederà l’organizzazione di cui fa parte che nulla farà mancare ai figli, alle vedove o ai genitori del martire.
Ad azione conclusa la cellula provvederà ad informare i vertici in modo da poterli mettere nelle condizioni di rivendicare l’attacco attraverso complicate filiere che forniranno, con l’ausilio di social network o con l’utilizzo di canali televisivi gestiti direttamente dall’organizzazione, le ragioni dell’azione, i dettagli, i riferimenti coranici e la promessa di una continuazione della Jihad.
Ovviamente il messaggio di rivendicazione verrà subito ripreso dai grandi network televisivi che, attraverso testimonianze dirette, foto, videoriprese, daranno vita a quel risalto massmediatico del gruppo terroristico che vedrà accrescere tra i radicasti islamici la propria notorietà, ottenendo nuovi adepti, finanziamenti, volontari in trappola nel fenomeno dell’emulazionismo soprattutto nei giovani e, non escluso appoggi politici da parte di nazioni contigue al fenomeno del terrorismo islamico.
Da non sottovalutare la capacità delle organizzazioni terroriste impegnate nella Jihad di giovarsi di particolari caratteristiche tendenti a sorprendere il “nemico”. Tra queste vanno citate l’imprevedibilità delle azioni, la molteplicità degli obiettivi, la disinformazione ed i diversivi, l’organizzazione militare dei mujaheddin, l’utilizzo di armi simboliche quali il Kalashnikov AK 47, l’utilizzo dei convertiti occidentali (ritenuti più idonei nei teatri d’azione europei e denominati la “legione bianca”), tutto ciò è teso al raggiungimento del vero obiettivo: il terrore.
FASI GENERICHE:
1- preparazione al martirio ed eventuale assunzione di Captagon
2 – ripartizione dei ruoli secondo la pianificazione
3 – distribuzione di armi e/o esplosivi
4 – veicolazione cellule
5 – controllo appostamenti delle cellule e delle vie di fuga
6 – controllo postazioni della sicurezza preposta dalle Autorità
MOTIVAZIONE
Le azioni delle organizzazioni terroristiche portano ad una sottovalutazione da parte di chi le subisce (siamo pochi e deboli) ed una sopravvalutazione da parte di chi le pone in essere (siamo tanti e forti).
Si pensi all’ottenimento del panico indiscriminato provocato con un minimo sforzo e si rifletta sulla creazione di un clima “emulativo – bellicistico”, fenomeno oggetto di studi anche e soprattutto nel campo dell’economia e dell’alta finanza. I burattinai dei mujaheddin hanno pianificato ed azionato un meccanismo veramente diabolico: l’Occidente che trema ad ogni scoppio di pneumatico.
Occorre, però, partire da lontano per riuscire nell’arduo intento di comprendere le vere ragioni del fenomeno.
Per uccidere brutalmente una o più persone non occorrerebbe il dispiego di uomini e materiali che viene trasmesso con i video di propaganda realizzati da “case di produzione” legate ai gruppi terroristici. Ma le riproduzioni video, nella loro cruda ed esasperata rappresentazione della realtà, inducono lo spettatore ad un atteggiamento di incredulità, prima, e di panico poi.
Incapace di avere una reazione razionale e di pensiero ragionato, l’individuo antepone la propria incolumità, al momento indenne, ad un fattore di paura collettiva che coinvolge non più solo il singolo cittadino, ma anche e, soprattutto, gli apparati statali, quindi la sicurezza nazionale, ed ancor più quella mondiale.
Ma ciò che per lo spettatore medio è fattore prioritario è la salvaguardia della propria incolumità, la paura per la sua salute, per i suoi cari ed i suoi averi; la rappresentazione dell’altrui morte rispecchia la paura di perdere la propria vita allo stesso modo di come viene mostrato.
La riflessione che si impone a livello psicologico riguarda, anzitutto, la sorta di gratificazione della propria carica violenta, rappresentata dal soffermarsi su immagini violente, assistendo ad un film dell’orrore o splatter, o indugiando di fronte a qualsiasi incidente o fatto efferato. In seconda istanza sopravviene il senso di paura, insicurezza e panico indiscriminato. Ed è proprio qui che si rivolge l’attenzione del “terrorista” termine non casuale da cui deriva la volontà di seminare il terrore, per l’appunto.
TERRORE E MASSMEDIA
Per ottenere il coinvolgimento del maggior numero di persone possibili il terrorismo ha, quindi, necessità di utilizzare i moderni mezzi di comunicazione di massa per vedere allargato il proprio “bacino di utenza” sia in chiave propagandistica sia allo scopo di incutere un sentimento di paura generalizzato.
L’assistere impotenti alla distruzione di edifici abitati o commerciali, vie di comunicazione e trasporto, sgozzamenti, o stragi indiscriminate, moltiplicano in modo esponenziale l’impatto psicologico sulla popolazione. Il dramma diventa indifferenziato e scuote il pubblico nelle certezze su cui fonda il proprio vivere quotidiano.
Nel caso specifico degli islamisti il meccanismo si impone sia per la debolezza mostrata dagli occidentali, per esempio, nel vedere in loop le immagini cruente, sia, dall’altra parte, nel trovarsi di fronte ad un credo religioso utilizzato come giustificazione di ogni azione perpetrata in suo nome.
In questo simbolo le “menti criminali” di credo islamista sono riuscite a compattare parte dei credenti musulmani che, sebbene non partecipino direttamente ad azioni violente, creano una sorta di piattaforma di sostegno ai mujaheddin, permettendo loro di trovare zone franche ed appoggi logistici anche da parte di soggetti non necessariamente indottrinati all’uso della violenza.
Con l’utilizzo dell’apparato massmediatico, il terrorismo islamista ha cercato e trovato il meccanismo ottimale per coinvolgere i musulmani stessi, e gli immigrati in particolare, nella richiesta estorsiva di vedere accolte dall’Occidente le loro richieste di rivendicazione di diritti, al momento fortunatamente non riconosciuti, dal mondo moderno, ed additabili, storicamente, alle sconfitte soprattutto militari degli arabo-musulmani dai tempi delle crociate ad oggi.
Il primo passo verso lo scontro è compiuto con il rifiuto di ogni forma di integrazione che favorisce il fenomeno della ghettizzazione, degli scontri di piazza e creando le basi per una vera e propria invasione, se non militare, almeno sotto forma ideologica, in ciò comunque, allineandosi al pensiero jihadista.
Chi ha abbracciato per tradizione o convinzione la religione islamica nella sua visione più radicale, vive in un profondo stato di prostrazione vedendo il proprio credo confinato entro confini stabiliti dall’occidente e dovendo, altresì subire passivamente il modello istituzionale imposto dagli “stranieri” eretici o miscredenti. Ciò va evidentemente contro i precetti imposti dalla religione musulmana.
In questo, il terrorismo si impone come obiettivo finale di indurre nell’avversario emozioni negative come la paura, l’angoscia, l’inibizione delle attività e la riduzione dei comportamenti sociali. E’ un modo per condizionare, controllare, deviare il comportamento altrui attraverso la suggestione emotiva della paura. Da sempre la violenza e la paura ad essa connessa, sia espresse con attentati che minacciate dalla propaganda, sono usate come tecniche di pressione sulla popolazione avversaria.
Gli atti di terrorismo coinvolgono emotivamente non solo gli uomini di governo, i politici e le forze armate, ma tutta la popolazione.
In realtà, i terroristi “non vogliono che muoia molta gente, ma vogliono che molta gente stia a guardare”, così riassumendo il cliché dettato da Brian M. Herkins e che ben si adatta all’adattamento dell’audience indotto dai terroristi che rappresenta un problema: se l’audience di adatta alle tattiche, l’influenza dei terroristi diminuisce. Per gli stessi si pone quindi il problema di come sia possibile mantenere questo livello elevato di ansia e diffondere il terrore efficacemente”
Il terrorista con l’uccisione di poche (o molte) vittime, ottiene, il condizionamento inibitorio di tutta la popolazione avversaria. Il coinvolgimento emotivo riguarda la potente stimolazione di ogni forma di paura che risieda nella personalità della vittima e, soprattutto nello spettatore. C’è inoltre una più forte intolleranza allo stress e alle frustrazioni. Aumenta la diffidenza e l’ostilità verso tutto ciò che è straniero, sconosciuto ed estraneo al proprio quotidiano. Persone che già avevano per motivi personali un precario equilibrio psicologico, dopo ogni attentato si sono ritrovate a non dormire, a non riuscire a stare da sole, a rifiutare i luoghi affollati e a far un uso massiccio di psicofarmaci sedativi. Tutti questi effetti rappresentano patologie psicologiche e comportamentali che sono l’obiettivo primario del terrorismo.
LA SPINTA MOTIVAZIONALE
La spinta motivazionale dei “prescelti” viene loro indottrinata non dai reclutatori, ma bensì da esperti prescelti al sostegno della causa, pseudo imam o, comunque, soggetti muniti di una non indifferente preparazione religiosa sull’islamismo, attentamente assorbita da esegesi coraniche tratte dagli scritti di note personalità dell’Islam jihadista, come nel caso di Sayyed Qutb, Abu A’Ala Mawdudi, Ayman al Zawahiri.
Una forte spinta viene anche dalla promessa dell’elargizione di denaro a beneficio dei familiari del “martire” e di una loro consona sistemazione successiva alle gesta del prescelto.
La percentuale più alta di terroristi, secondo recenti studi, copre la fascia di età dai 20 ai 35 anni, uno spaccato di gioventù che si lascia attrarre dalle ideologie radicalizzanti, dal fanatismo e dal conseguente impiego volontario in azioni dirette. Le loro menti imbevute di oltranzismo religioso non permettono di discutere alcun ordine loro impartito, anche se dovesse riguardare il loro martirio.
Nei nuovi “arruolati” si stimola il passaggio dalla legalità all’illegalità clandestina, vivendo con i fondi offerti dai sostenitori della causa. Queste persone si staccano progressivamente dalla realtà e non sarà più possibile discutere o confrontarsi con loro. Il loro distacco ed isolamento renderà il loro fanatismo sempre più radicale ed aggressivo sino a non avere alcuna remora nel morire obbedendo agli ordini ricevuti.
I soggetti sottoposti a studio hanno manifestato un alto grado di vulnerabilità che li ha resi impotenti, anzi, ansiosi e felici nell’ abbracciare l’estremismo islamico nella sua forma terroristica, mostrando, altresì una necessità, un bisogno di appartenenza che dia senso alla loro esistenza che, sebbene insito in ogni persona, si distingue dalla massa per l’adesione ad ideologie omicide o stragiste.
È indicativo il dato che queste persone non si riconoscono e non trovano senso nel sentirsi cittadini, ma invece nel sentirsi musulmani. Molti potenziali terroristi trovano nei movimenti radicali e nei gruppi estremisti il senso della vita, di significato, di connessione e di appartenenza. È come se appartenere ai gruppi estremisti ed abbracciare le loro ideologie aiuti questi soggetti ad affrontare le loro insicurezze ed il mondo in cui vivono.
IMMIGRAZIONE E INDUZIONE ALL’ESTREMISMO
Ma in tutto ciò, un ruolo fondamentale è ricoperto dalle condizioni sociali nelle quali il giovane, nel 90% dei casi, è un immigrato di prima o seconda generazione, proveniente dal Maghreb o al più dal Medio Oriente che si trova a vivere in “Un clima civile imbarazzante che ricorda la teoria delle finestre rotte di James Q. Wilson e George L. Kelling: esiste un legame tra le condizioni dell’ambiente e i comportamenti delle persone. Più bruttezza, più incuria, più volgarità, più degrado dei luoghi producono comportamenti “devianti”, antisociali, crimini, insicurezza. Lassismo, tolleranza indifferente, l’incapacità, o peggio la volontà di non punire determinate condotte, a partire dal decoro ambientale e personale, dalle norme di convivenza comunitaria, creano una situazione di disordine che porta alla generalizzazione di comportamenti arroganti, violenti, che determinano insicurezza instaurando un clima di dissoluzione del legame sociale.”
E, sempre citando l’autore, “Un ambiente governato da regole fatte rispettare, la cui violazione comporta una punizione e riprovazione sociale determina al contrario una sensazione di serenità che produce ordine, morale non meno che sociale.
Se in strada vediamo un edificio con le finestre rotte si innescano elementi di degrado urbano e abbandono che favoriscono condotte negative che generano imitazione (non pagare un biglietto, prevaricazione, arroganza, sciatteria) con l’effetto di moltiplicarle. La finestra rotta, alla lunga, produce il crollo dell’edificio. Non la povertà ma la mancanza di principi condivisi crea degrado. Ne sono prova la storia delle nostre famiglie e delle nostre comunità. Gli inferni che ci circondano sono la somma delle finestre rotte.
Gli indicatori visibili di disordine sono segnali di malessere sociale, spie di futuri gravi problemi. Devono quindi essere affrontati all’origine. Ciò significa che l’instaurazione dell’ordine e della sicurezza di cui una società ha bisogno per potersi sviluppare, inizia dal basso, negli aspetti più elementari. Qualsiasi segno visibile di disordine – finestre rotte, porte divelte, capannelli di sfaccendati, ubriachi, tossici, l’abitudine di ignorare i semafori o saltare i tornelli della metropolitana – modella un ambiente che promuove disordine e poi criminalità.
Il male chiama altro male. La transizione dall’ordine al disordine ha mille aspetti, e l’osservazione delle abitudini quotidiane fa presagire l’imposizione di un nuovo clima a-sociale che allarma”. “Le regole formali funzionano se sono accompagnate da conseguenze, altrimenti diventano carta straccia. Ciò non significa che l’unico mezzo sia la coercizione. Occorrono più elementi, alcuni molto sottili ed altri evidenti, come l’educazione e l’insegnamento, perché l’ordine sociale è un sistema complesso quanto la diversità delle personalità che ne fanno parte”.
“Le scienze sociali (antropologia, psicologia, sociologia) sono animate da un pregiudizio ideologico che confonde libertà con licenza, tolleranza con divieto di formulare giudizi di merito”.
Come ritratto dagli ultimi eventi con le rivolte a Leeds, in Irlanda o nella stessa Francia, il fatto che un certo tipo di immigrazione, come quella musulmana, tenda a concentrarsi in alcune aree sarebbe una conseguenza dell’emarginazione dovuta alla xenofobia. L’argomento, però, “trascura l’evidenza cha alcune comunità tendono a riunirsi di propria iniziativa per accedere alle opportunità e ai benefici forniti dalla società ospitante, evitando di condividere le sue convenzioni, costumi, leggi. Attraverso la concentrazione “comunitaria”, molti immigrati sfuggono a un’integrazione che non desiderano, e in più assimilano un sobborgo, un quartiere, una città alle loro regole e culture: integrazione invertita. In questi luoghi, l’abolizione dell’ordine “nostro” e del suo principio di autorità finisce non solo per porre un problema alla società ospitante, ma reca danno anche agli immigrati, poiché si traduce nell’imposizione di una legge ferrea a cui un membro di quella comunità può sfuggire solo abbandonandola.
In ciò l’espressione tipica dei sostenitori dell’islamismo, si riduce ad una volontà di restaurazione del “califfato” in Europa e, nei casi specifici nelle cosiddette “Sha’aria zone” o “no go zone”, aree metropolitane che suggono ai controlli di polizia fruendo di coperture ben delineate sia da parte della delinquenza comune sia anche dalla sempre più arrogante ideologia islamista, presupponendo un tentativo di “islamizzazione forzata” della popolazione indigena.
Ritornando alla “teoria delle finestre rotte”, ben delineata dall’articolo apparso sul “Nuovo giornale nazionale, e redato da Roberto Pecchioli, si deduce che “in Occidente per decenni la politica, con il pretesto di promuovere la tolleranza, l’egualitarismo, l’inclusione di mille minoranze reciprocamente avverse (le “diversità) si è dedicata sistematicamente a rompere finestre, fino a quando la stessa civiltà ha finito per essere messa in discussione nelle sue conquiste, nella sua storia, nei suoi fondamenti e nelle sue radici. Il vittimismo, l’identitarismo, la tolleranza intollerante promossi dalla politica hanno imposto aspettative corrosive (i “diritti”) che hanno svuotato le nostre società. Questa transizione dall’ordine al disordine impone ora un nuovo ordine intollerante che allarma sempre più europei ed americani. Ecco perché il rispristino di quell’ordine violato, l’esigenza di riparare e rinforzare le finestre condiziona i processi elettorali. Aumenta il numero di cittadini che si sentono minacciati: la richiesta diventa più pressante”.
Da qui si carpisce come “l’indebolimento degli stati e il venir meno di alcuni di essi contribuiscono a evocare una quarta immagine, quella di un mondo dominato dall’anarchia. Tale modello presuppone il crollo dell’autorità statale, la disgregazione degli stati, l’intensificarsi dei conflitti tribali, etnici e religiosi, l’emergere di organizzazioni mafiose criminali transnazionali, l’aumento esponenziale del numero di “rifugiati”, la proliferazione delle armi nucleari e di altri strumenti di distruzione di massa, il diffondersi del terrorismo, il moltiplicarsi di massacri e le operazioni di pulizia etnica. Tale immagine di un mondo in pieno caos è illustrata e compendiata con grande incisività nei titoli di due penetranti opere profetiche pubblicate nel 1933:”Il mondo fuori controllo” di Zbigniew Brzezinski e “Pandaemonium” di Daniel Patrick Moynihan.
Occorre, quindi, affrontare con decisione l’assunto dettato da Samuel P. Huntington nel suo saggio “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale,” edito nel lontano 1996, laddove l’autore ricorda come storicamente sia terminata “l’espansione dell’Occidente” e sia iniziata “la rivolta contro l’Occidente”.
PSICOLOGIA DEL TERRORISTA
E’ estremamente difficile sintetizzare cosa spinge un giovane ad abbracciare l’idea di provocare danni a persone o cose che, in fondo, lo circondano quotidianamente.
Il terrorismo è di per sé un tentativo violento di sopraffazione, ma non per questo dobbiamo accettare l’assioma secondo il quale “Chi uccide è psicopatico – il terrorista uccide – il terrorista è psicopatico”.
Il fattore psicologico è stato affrontato in due pubblicazioni del 2008 e del 2014, da due professori universitari Borum e Silke, entrambi d’accordo nell’affermare che gli estremisti non soffrono di malattie mentali. Sul finire degli anni ’90, per circa tre anni, sono stati intervistati 250 palestinesi membri di Hamas e di gruppi jihadisti vari. Sembrerà strano, ma dall’analisi di queste interviste è emerso che queste persone parlavano sì con freddezza riguardo agli attentati e alle vite delle persone coinvolte in essi, ma senza manifestare evidenti segni clinici di psicopatologie importanti. Anzi le loro azioni era ben motivate da profonde convinzioni religiose e filosofiche, le quali li portavano a considerarsi dalla parte del giusto.
Nella profanazione dei terroristi, occorre tracciare una linea distintiva tra quelli sistematici o occasionali, dove gli studi psicologici ricoprono un ruolo fondamentale. “La distinzione tra un’attività ridotta transitoria o permanente del circuito dell’empatia riecheggia la distinzione che si fa in psicologia tra “stati” e “tratti” della personalità. Gli stati sono fluttuazioni di un sistema psicologico e neurale, indotte da un particolare contesto, e sono reversibili. Conosciamo tutti i tipi di stati a breve termine che possono compromettere la nostra empatia; se siamo ubriachi, stanchi, impazienti o stressati, potremmo dire o fare la cosa sbagliata a qualcuno, per poi pentircene. Il senso del rimorso è un segno del ripristino del nostro circuito dell’empatia, ma il fatto che noi diciamo o facciamo la cosa sbagliata è, comunque, – in quel momento – una fluttuazione del nostro circuito dell’empatia. Al contrario, i “tratti” sono a tempo indeterminato, configurazioni permanenti e cristallizzate di un sistema psicologico o neurale che persistono in contesti diversi, e sono irreversibili”.
CONCLUSIONE
In conclusione, appare chiaro che, per ristabilire un modus vivendi ottimale nella nostra società occidentale, occorra fare ricorso a misure se vogliamo estreme. Alla violenza islamista non si può rispondere con il pacifismo o con l’accoglienza indifferenziata poiché, citando una frase pronunciata ad Istanbul alcuni anni or sono da un noto membro della Fratellanza musulmana, “Noi vi conquisteremo con le vostre leggi e vi domineremo con le nostre”.
Occorre quindi, prendere atto di una situazione divenuta oramai insostenibile con violenze continue, saccheggi, rivolte e, soprattutto l’arroganza dei clandestini (perché così si definiscono coloro i quali tentano di attraversare una frontiera senza i dovuti permessi e i documenti di identità).
Una situazione surreale dove l’ospite non gradito si comporta come padrone di una casa non propria senza che il proprietario possa beneficiare in alcun modo delle antiquate leggi che dovrebbero “democraticamente” punire chi delinque, con il risultato di un sovraffollamento carcerario inaccettabile, di una paura generalizzata di frequentare alcune zone, un timore reverenziale da parte delle Forze dell’ordine destinate, loro si, al martirio se vittime di qualche video quasi sempre virilizzato sui social, in cui viene immortalato non l’Agente colpito, ma l’Agente che eventualmente colpisce.
Tutti noi, o quasi, abbiamo impressa nelle menti la stagione dei cosiddetti “anni di piombo”, un periodo buio della nostra storia che, però, vide lo Stato ergersi a baluardo della civiltà con provvedimenti, le Leggi speciali, emanati ad hoc che indussero i gruppi terroristici ad una retromarcia nelle azioni perpetuate ed alla loro definitiva scomparsa. Eppure noi tutti accettammo di buon grado di sottoporci ai rigorosi controlli imposti, ai rastrellamenti di interi quartieri, ai posti di blocco (e non di controllo…) delle Forze di Polizia ed ad un clima surreale che sfiorò una vera e propria guerra civile. E vincemmo.