“Il problema linguistico nelle carceri esiste ma la vera sfida è formare gli imam a consigliare i detenuti a rischio radicalizzazione”. Youssef Sbai, co-fondatore ed ex vicepresidente nazionale dell’Unione delle comunità islamiche in Italia (Ucoii), la sua docenza di islamologia alla scuola di Polizia penitenziaria ha generato delle critiche da parte del sindacato Sappe, che ritiene prioritario lo studio delle lingue straniere.
Il problema della lingua è reale?
“Mi preme specificare che il corso, attivo da un anno, è rivolto non solo agli agenti ma anche agli psicologi ed educatori. Sono d’accordo il problema è linguistico. Ma bisogna capire quale arabo insegnare. Se quello parlato dai detenuti marocchini, egiziani o siriani. I carcerati provenienti dal Medioriente parlano ad esempio un arabo molto vicino a quello classico, mentre i nordafricani si esprimono con dei dialetti che sono un miscuglio di arabo berbero e parole francesi, spagnole o addirittura inglesi. Se un agente imparasse la lingua araba classica non riuscirebbe a comprendere quanto detto da un detenuto marocchino”.
Quindi è d’accordo che c’è un problema linguistico?
“Certo. Gli imam che si sono autoproclamati in carcere parlano la stessa lingua dei detenuti e possono quindi trasmettergli un messaggio religioso scorretto, magari disapprovato dalle stesse comunità musulmane. Ciò avviene perché non è verificabile se lo stesso discorso fatto in italiano corrisponda a quanto detto in lingua araba”.
Si potrebbe quindi diversificare l’insegnamento dell’arabo a seconda della peculiarità di chi lo parla?
“La formazione linguistica dovrebbe essere specifica, quindi non basata solo sull’arabo classico. Si potrebbero organizzare dei corsi di arabo per gli agenti in funzione dei paesi di origine dei reclusi. Il contesto linguistico in ogni caso è molto più complesso del conoscere l’Islam e la sua cultura. Se pensiamo anche ad altre etnie, come quella pakistana o bengalese, presenti nelle carceri italiane“.
Come garantire questa trasparenza linguistica?
“L’unico modo per garantire che non ci sia un’opera di indottrinamento sbagliato è assicurare la presenza di imam accreditati. Questi devono arrivare quindi solo da fuori gli istituti di pena. Ma bisogna anche formarli in modo che svolgano un ruolo delicato, diverso da quello di un ministro di culto in una qualsiasi moschea. Un profilo che guidi e sostenga i detenuti praticanti quando si palesano i primi segnali di disagio psicologico o d’inadeguatezza”.
Cosa prevede il suo programma di docenza. Come si forma un agente a riconoscere possibili atteggiamenti di estremismo nel detenuto?
“La mia docenza nelle scuole di Polizia penitenziaria è inserita in un corso di aggiornamento molto più ampio. Noi stiamo costruendo una base di conoscenze in merito alle pratiche religiose e a certi aspetti culturali dei paesi di provenienza dei detenuti, in particolar modo i nordafricani. Nello specifico insegno quali sono i comportamenti non consentiti dalla religione musulmana affinché gli agenti possano avere un bagaglio culturale utile a comprendere le abitudini del detenuto senza bisogno di chiedere nulla. Ad esempio se un recluso prega a un orario e l’altro no”.
Come si identifica un estremista e radicalizzato?
“È un percorso lungo e complesso. Il mio è uno studio accademico che si basa sulla ricerca fatta dal professor Khalid Razzali dell’Università di Padova. Ci sono quattro o cinque fasi che non sempre vengono rispettate in toto. Di solito si comincia con un disturbo psicologico-sociale del detenuto, difficile da decifrare, che può essere raccolto e utilizzato da un altro soggetto già radicalizzato che lo trascina a sé. I primi segnali arrivano quando inizia l’indrottinamento ma non esiste una frontiera netta tra una pratica religiosa innocua e una deviante”.
Cosa preoccupa di più gli agenti di sorveglianza?
“Quando il detenuto riprende a pregare dopo tanti anni. Oppure se un soggetto, che prima si rapportava con tutti, dopo un lasso di tempo decide di interagire solo con un gruppo di praticanti islamici. Sono delle indicazioni che vanno verificate, ma non è detto che ci sia poi un effettivo pericolo”.
Nella sua esperienza di volontario nelle carceri ha incontrato detenuti a rischio radicalizzazione?
“Sono stato in istituti piccoli del nord Italia e non ho trovato fenomeni di questo tipo. Anzi segnalo il caso di Bologna, dove due anni fa è stato realizzato un progetto sui diritti rivolto ai detenuti arabi e musulmani. Un altro esempio di come si possono prevenire fenomeni di deviazione”.
Prevede che anche in Italia possa aumentare il rischio di radicalizzazione tra i giovani musulmani?
“Il rischio c’è. Lo hanno già detto i vertici istituzionali del Paese. Dobbiamo essere tutti attenti e partecipi. Genitori, professionisti, imam, guide religiose e lo stesso corpo della Polizia penitenziaria, che ringrazio per la professionalità e la sensibilità con le quali lavora nel contrastare il fenomeno di radicalizzazione all’interno delle carceri. Siamo tutti chiamati a non lasciare spazio alla cultura dell’odio”.