116 le donne uccise dall’inizio dell’anno. 116 donne vittime dell’odio, del senso di frustrazione e di possesso maschile.
Va detto che il dato non sorprende troppo se si pensa che il delitto d’onore e il matrimonio riparatore in caso di violenza sessuale appartengono al passato prossimo di questo Paese (quest’ultimo è stato abrogato nel 1981).
Dalla presa di coscienza che tutto ciò è sbagliato e profondamente ingiusto alla trasformazione sociale, come dimostrano i fatti di cronaca, c’è un divario, che può essere colmato solo attraverso un’educazione adeguata; perché, non possiamo nasconderci dietro un dito, ciò che sta accadendo è il frutto di un modello educativo sbagliato che continuiamo a trasmettere alle nuove generazioni e che è rimasto sempre uguale a se stesso.
Che possiamo fare noi come genitori e, soprattutto, noi come madri?
“Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere” recita il titolo di un libro, per sottolineare le differenze cognitivo-emotive fra i due sessi. In parte strutturali, perché il cervello presenta delle differenze nelle connessioni neurali fra i due emisferi. In parte sociali. Quest’ultime forse modificabili nel lungo periodo, ma che comunque producono aspettative, ruoli, credenze che plasmano le nostre convinzioni.
E’ soltanto con la conoscenza e il riconoscimento di tali differenze che possiamo uscire da questo tunnel. E con il rispetto, che la conoscenza genera.
Si parla tanto di educazione sessuale nelle scuole, un argomento che ingenera sempre una gran quantità di polemiche, paralizzando di fatto ogni iniziativa, ma sarebbe quanto mai impellente il bisogno di un’educazione affettivo-sessuale, impartita a casa come a scuola, che insegni ai ragazzi la convivenza fra i sessi, distrugga lo stereotipo Principe azzurro/Cenerentola, che, è così radicato dentro di noi e che ingenera in entrambi i sessi aspettative impossibili, e proponga, invece, un modello di collaborazione, dove l’obiettivo comune sia la felicità reciproca, l’espressione delle proprie peculiari potenzialità; che stimoli la curiosità per il diverso, lavorando sulla coscienza di questa diversità, proponendo un concetto di parità nella differenza; un lavoro che parta a scuola dalla compagna di banco, a casa dalla propria sorella.
Come madri, noi dobbiamo anche saper dire di no ai nostri figli. Nella tragedia della violenza domestica aleggia sempre l’ombra della frustrazione, dell’inadeguatezza del maschio nella gestione del rifiuto. Il modello di mamma votata alla famiglia, sempre disponibile, come se non ci fossero dei limiti e una dimensione esterna, contribuiscono forse a generare nell’uomo l’aspettativa che la donna sia un essere a disposizione, una sua costola, e non un persona con una propria individualità e delle proprie esigenze. E, contemporaneamente, dobbiamo insegnare loro a dare un nome a quella frustrazione, ad esprimerla con le parole anziché con la violenza. Perché il nostro no alla violenza, come genitori, dev’essere detto forte e chiaro, senza esitazioni e senza contraddizioni, in ogni momento. E dobbiamo anche insegnare alle ragazze che, laddove questa educazione non ci sia stata, la rabbia e la frustrazione in un uomo possono diventare una miscela esplosiva.
Dove c’è un carnefice, c’è anche una vittima, per questo dobbiamo educare le nostre figlie a rispettarsi per non diventare vittime. Certo in un mondo in cui le donne diventano famose in base ai centimetri di pelle esibita, è una sfida non facile, ma non impossibile.
Spieghiamo loro che quando si tronca una relazione, non ci deve sentire in colpa. Si ha il diritto di decidere di non voler passare la vita con un uomo con cui non vogliamo stare. Ho visto in varie occasioni, innescarsi in una ex coppia meccanismi pericolosi perché lei esitava, dando origine a una pericolosa altalena di lascia/prendi o a situazioni in cui lei trascorreva le serate ad ascoltare le lamentele dell’ex. Ho 48 anni e nella mia vita non mi è capitato mai di conoscere qualcuno che si sia pentito di aver lasciato qualcun altro. Specie una donna. Quando si prende una decisione, bisogna portarla avanti senza esitazioni. Se si è arrivati a quel punto, la responsabilità è comune. E, poiché siamo donne e ci dicono che abbiamo l’abitudine di parlare tanto, sicuramente non sarà piovuta dal cielo.
Il vecchio adagio “Chi pecora si fa, lupo se la mangia” è sempre ricco di tanta saggezza. Regaliamo alle nostre figlie corsi di karate e di difesa personale, invece dell’aspirapolvere giocattolo e dei ferri da stiro, e lo spray al peperoncino quando cominceranno a uscire da sole. E’ vero che mediamente c’è differenza fra la forza fisica di un uomo e quella di una donna, ma nella maggior parte dei casi le donne non provano proprio a difendersi. E non dimentichiamoci di quella ragazza inglese che l’anno scorso ha picchiato il suo aggressore, un uomo grande e grosso, tanto da renderlo irriconoscibile.
La mia non è un’istigazione alle donne a diventare violente, a risolvere il problema della violenza con la violenza, ma è l’invito a porsi in maniera diversa di fronte ad essa, a non pensare che sia ineluttabile subirla. Molte ricerche hanno mostrato come i predatori sessuali, per esempio, scelgano le loro vittime in base a delle caratteristiche psicologiche precise, persone che vengono da loro percepite come vulnerabili. In quest’ottica pensare a se stesse come esseri potenzialmente in grado di difendersi diventa di per sé uno strumento di deterrenza.
Esiste una legge contro lo stalking. Anche se, qualche volta, l’applicazione della stessa si è rivelata inefficace, non dobbiamo desistere e utilizzare tutti gli strumenti che sono a nostra disposizione. Rivolgiamoci ai centri antiviolenza. E usiamo anche un po’ di buon senso: a volte un periodo di allontanamento da casa può essere utile. Così come cambiare numero di telefono o giro di amicizie. Non è bello e non dovrebbe essere così, ma il passaggio fra la vita e la morte è un attimo. E 116 vittime è il bilancio di una piccola guerra. In attesa di un mondo migliore, facciamo tutto ciò che è in nostro potere per difenderci e difendere le nostre figlie.