Statuto vs Riforma. È uno dei nodi da sciogliere in caso di vittoria del sì all’ormai imminente referendum sulla riforma costituzionale. Gli statuti delle cinque regioni a statuto speciale (Sicilia, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Sardegna e Friuli) prevedono espressamente l’incompatibilità tra la carica di consigliere regionale e quella di deputato. “L’ufficio di Deputato regionale è incompatibile con quello di membro di una delle Camere, di un Consiglio regionale ovvero del Parlamento europeo”, così recita ad esempio l’articolo 3 comma 7 dello Statuto della Regione Sicilia.
L’incompatibilità tra il ruolo di consigliere regionale e quello di parlamentare è prevista anche dall’articolo 122 della Costituzione, che con la vittoria del sì al referendum darebbe la possibilità di ricoprire entrambi gli uffici. L’ipotetico nuovo Senato dovrebbe essere composto infatti da consiglieri e sindaci: almeno due membri per regione. La modifica prevista dalla riforma non coinvolge però le Regioni a statuto speciale, che manterrebbero la loro autonomia e anzi amplierebbero le loro competenze.
Il vulnus sarebbe sanabile modificando successivamente gli Statuti, nel caso in cui il quesito del referendum confermativo fosse approvato dagli elettori. “Si tratta di una riforma disordinata per quanto riguarda gli statuti – spiega Agatino Cariola, docente di diritto costituzionale dell’Università di Catania – sarebbe stato meglio fare un accordo prima con le regioni ma lo Stato ha la facoltà di riorganizzarsi”. Bisogna infatti distinguere tra profili organizzativi (composizione del nuovo Senato) da quelli legati alle competenze (materie in mano alle regioni).
“Gli statuti speciali disciplinano di cosa si occupano le regioni ma se si aumentano le loro competenze, allora bisogna coinvolgerle preliminarmente”, afferma il costituzionalista che sottolinea le possibili criticità proprio riguardo le future competenze da attribuire alle regioni autonome. “Formalmente non sono state abrogate le corrispondenti norme delle disposizioni speciali che prevedono il parere delle regioni. A questo punto non si capisce perché l’abbiano scritto nella legge”.
In effetti modificare, ad esempio, lo statuto siciliano sarebbe un processo lungo e intricato, dal momento che il testo su cui si regge Palazzo d’Orléans ha rango costituzionale: emendabile, quindi, con procedura aggravata per impulso della Regione, del Governo o del Parlamento e in sinergia tra l’ente locale e le istituzioni nazionali.
Un’altra contraddizione sembra annidarsi negli articoli 55 e 70 della legge Boschi. Nel primo si fa riferimento al fatto che il Senato “partecipi alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea”. In sintesi, il Senato concorre all’attuazione del diritto comunitario, partecipando con la Camera alle decisioni da prendere rispetto a tutti gli atti normativi europei. Nel secondo articolo invece, segnala il professor Cariola, sembra che il nuovo Senato partecipi solo alle leggi che disciplinano la procedura di assimilazione del diritto comunitario. Per essere chiari, fino a oggi sono state approvate solo tre norme che determinano la procedura di approvazione delle norme Ue (legge 86 del 1989, legge 11 del 2005 e infine la 234 del 2012).
Se non venisse data una chiara interpretazione della riforma, il nuovo Senato sarebbe chiamato a esprimere il proprio parere sulla ricezione delle direttive europee solo in merito alle leggi di procedura.
Secondo diversi costituzionalisti emergerebbe inoltre un’altra nota di disarmonia nel nuovo assetto istituzionale. Se la Camera approvasse una legge ad esempio in materia di pensioni o di sanità, un terzo dei senatori potrebbe emendarla entro 30 giorni dalla ricezione del disegno di legge. In caso contrario la Camera “procede in via definitiva”, promulgando la legge. Un tempo considerato troppo breve, dal momento che i diversi consiglieri regionali dovrebbero coordinarsi fra di loro nell’attività legislativa nonostante le distanze geografiche, dovute alle regioni di elezione. Quest’ultima, secondo una parte di analisti, potrebbe essere la procedura adottata anche in materia di diritto comunitario.