La storia del nostro paese è iniziata così: con un referendum. Era il 2 giugno 1946 e gli italiani furono chiamati a scegliere fra Monarchia e Repubblica. Da quel giorno sono passati 70 anni e altrettanti referendum si sono succeduti (72 per la precisione, considerando anche la consultazione del prossimo 4 dicembre). Una media invidiabile che non teme confronti neppure con i paesi stranieri. Tuttavia, secondo le principali testate internazionali, nell’ultima decade si è assistito a un utilizzo quantomeno disinibito dello strumento referendario anche fuori i confini del bel paese. Le ragioni sono da ricercare nella crisi di rappresentatività delle moderne democrazie.
“Dal 2006 a oggi – scrive il quotidiano britannico The Guardian – nel mondo si sono svolti più di 40 referendum all’anno, un dato tre volte superiore rispetto la media storica registrata prima della caduta del Muro di Berlino”. Tutti estremamente differenti sia per tipo (abrogativo, consultivo, costituzionale) che per materia trattata. Tutti dai risultati quanto meno imprevedibili, che sempre più di rado corrispondono alle aspettative della classe politica e favoriscono la nascita di movimenti e di partiti populisti pronti a cavalcare l’onda dell’emotività dei cittadini e la loro scarsa informazione.
In effetti, in questi mesi, gli elettori di tutto il mondo hanno avuto il loro bel da fare. Hanno separato la Gran Bretagna dall’Unione Europea; hanno rifiutato un accordo di pace in Colombia tra governo e FARC; hanno votato a favore di una nuova Costituzione in Thailandia che di fatto conduce a un’involuzione della democrazia nella paese e hanno sostenuto, in Ungheria, il piano proposto dal governo per ridurre il numero di rifugiati a Budapest, senza però raggiungere il Quorum necessario per renderne valida la partecipazione. Quattro casi, secondo il Nyt, nei quali la popolazione è stata chiamata a decidere su questioni eccessivamente complesse.
Ma non è tutto. Quello che realmente manca oggi, per il quotidiano statunitense “è la capacità di coinvolgimento popolare da parte delle diverse forze politiche” che porta a mettere in dubbio la “democraticità” stessa dello strumento referendario. Cadute le grandi ideologie, falliti i grandi sistemi politici si è persa la capacità di ricondurre anche il quesito più difficile all’interno di una visione complessiva della società. E il risultato è che i cittadini sono portati a credere e ad avere fiducia nelle cose piccole e sempre più concrete. Non chiedono più la riforma dell’istruzione, ma chiedono una scuola adeguata alle esigenze dei loro ragazzi; non più la riforma del lavoro, ma il loro posto di lavoro.
A risentirne, prima di tutto, è l’affluenza. Dei referendum presi in esame dal Nyt quello con la più alta partecipazione (72 per cento) è stato il quesito dello scorso 23 giugno che ha deciso l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Anche in quel caso, tuttavia, non sono mancate le polemiche sulla scarsa partecipazione al voto dei più giovani. In Colombia solo il 38 per cento degli aventi diritto ha ritenuto di doversi pronunciare su un trattato che metteva fine a cinquanta anni di sanguinosa guerra civile mentre in Ungheria la schiacciante maggioranza contraria all’ingresso dei rifugiati non ha comunque superato il quorum (50 per cento) richiesto per rendere valido il referendum. Stesso destino, tra qualche giorno, potrebbe toccare anche all’Italia. E forse non è un caso che uno dei punti principali della riforma Boschi preveda l’abbassamento del quorum necessario per i referendum abrogativi, adeguandoli all’affluenza delle politiche.
Uno dei pochi paesi ad aver realmente compreso la natura e l’importanza del referendum è la Svizzera. Il quesito referendario fa parte ormai da molto tempo della cultura politica del paese. “La popolazione ne ha capito i tratti distintivi e lo ritiene un vero strumento di democrazia”, ha dichiarato Stefan Lehne, analista al Carnegie Europe Institute di Bruxelles all’emittente televisiva di Berna RSI. “In altri paesi invece indirlo è un evento raro – ha continuato – la gente non è preparata a utilizzarlo. Inoltre spesso viene associato a campagne politiche che fanno leva su altri fattori, ad esempio fattori che denigrano l’operato dell’esecutivo di turno, oppure che riguardano il mal andamento dell’economia”. Imparare a utilizzare bene lo strumento del referendum “è fondamentale”, ha concluso Lehne. Anche perché i quesiti che un referendum spesso propone promettono cambiamenti importanti per il paese. Di cui è bene informarsi prima. Perché cambiare non necessariamente e sempre corrisponde a migliorare.