“Se non c’è giustizia per tutti non c’è giustizia”. L’amarezza nelle parole di Margherita Maino Canales, sorella di Juan Maino Canales, desaparecido cileno dal 1976, sembra stonare con la sentenza emessa lo scorso 17 gennaio dalla III Corte di Assise di Roma sul cosiddetto Plan Condor.
La strategia del Plan Condor elaborata dalle dittature sudamericane di Argentina, Bolivia, Cile, Perù e Uruguay, al potere tra gli anni ’70 e ’80, prevedeva, di concerto con la Cia, un accordo per l’eliminazione degli oppositori agli allora regimi vigenti. Dai sindacalisti, agli intellettuali, passando per studenti, operai ed esponenti socialisti, comunisti ma anche cattolici. Tutti scomparsi.
Otto le condanne all’ergastolo, 19 le assoluzioni e sei i “non luogo a procedere” perché, nel frattempo, gli imputati sono deceduti. L’accusa mossa dalla procura di Roma è di aver preso parte in qualche modo alle operazioni di sparizione e poi alla morte di 43 cittadini di origine italiana che vivevano nei Paesi sudamericani. Sei italoargentini, quattro italocileni, 13 italouruguaiani e venti uruguaiani. Sono stati condannati solo i vertici delle forze militari e repressive ma non i quadri intermedi, ovvero i meri esecutori delle stragi degli scomparsi.
L’amarezza di Margherita Maino rappresenta la voce di centinaia di migliaia familiari dei desaparecidos alla costante ricerca di una giustizia terrena, che forse non può rivelarsi mai definitiva. Quasi 30 o 40 anni dopo le torture, le aggressioni e le repressioni, è difficile riuscire a fare luce anche su chi, ad esempio, ha solo raccolto informazioni sui presunti oppositori politici ai regimi o collaborato con i piani alti delle organizzazioni.
Alla luce della sentenza sul Plan Condor, l’associazione Libera ha organizzato un incontro a Roma al quale hanno partecipato Margherita Maino e l’avvocato Luz Palmas Zaldua del Centro de Estudios Legales y Sociales di Buenos Aires, che si occupa della tutela legale delle famiglie dei desaparecidos argentini e di diritti umani.
In ogni caso lo scopo del processo italiano al Plan Condor non è stato solo prendere atto dei singoli casi, come fatti a se stanti, ma collocarli in un piano di repressione e di punizione preventiva per i familiari delle vittima coordinata a livello internazionale. Grazie a una fase istruttoria durata più di 3 anni, che ha visto la presenza di 300 testimoni, è stato possibile ricostruire una mappa di come si è sviluppato il Plan Condor.
Tra gli imputati, ma non presente al momento della lettura della sentenza, anche Jorge Nestor Troccoli. Ex ufficiale del servizio di intelligence della Marina militare uruguaiana che interrogava i detenuti sequestrati in un centro di detenzione simile all’Esma argentina (scuola per la formazione degli ufficiali della marina di Buenos Aires), passata alla storia per le torture e le violenze perpetrate agli oppositori del regime argentino tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 (compreso il periodo di Videla).
Troccoli, la cui famiglia è di origini campane, si è rifugiato in Italia nel 2007 per sfuggire al giudizio nel suo Paese. Nel processo italiano al Plan Condor è stato assolto perché il fatto non sussiste. Nonostante l’ex ufficiale abbia argomentato in passato il ricorso ideologico alla tortura nei confronti degli oppositori politici in un’ottica di salvaguardia dello Stato dalla pressione del terrorismo interno.
In Argentina si stima che i desaparecidos siano oltre 30.000. Nel Paese si è diffusa nel tempo la pratica degli “escrache”: manifestazioni estemporanee di protesta sotto casa dei torturatori. L’associazione “hijos”, i figli dei desaparecidos, dicono dove non c’è giustizia c’è “escache”: sputtanamento. Un modo per rompere il silenzio e tenere viva la memoria.