Era stato reclutato da un imam nel suo paese di origine il 34enne Sillah Osman, alias Abou Lukman, il gambiano arrestato mercoledì scorso a Napoli dall’antiterrorismo. Dopo due mesi di addestramento nei campi a sud della Libia, svolto insieme a miliziani di altre nazionalità, aveva prestato giuramento allo Stato Islamico ed era stato inviato in Italia sfruttando le rotte clandestine dell’immigrazione, probabilmente a bordo di un barcone.
Nel Cara di Lecce, dove alloggiava, aveva presentato domanda di ammissione al progetto Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, ottenendo il permesso di soggiorno provvisorio. Ma da tempo i Servizi di informazione lo tenevano d’occhio. Un suo connazionale, Alagie Touray, era stato catturato nell’aprile scorso vicino a Napoli poichè accusato di essere un operativo dell’Isis, oltretutto già attivato, e in procinto di entrare in azione. Proprio Touray aveva indirizzato gli investigatori verso l’individuazione di altri miliziani nel nostro Paese e, tra questi, Sillah Osman, entrato nel mirino delle forze dell’ordine per la forte instabilità psicologica che lo rendeva estremamente pericoloso per la possibile ed improvvisa auto-attivazione. Le indagini hanno ricostruito il quadro indiziario nei confronti dei due che includeva, tra l’altro, progetti di attacchi, sulla scorta di quello compiuto a Nizza nel 2016, da eseguirsi in Spagna e Francia.
La vicenda del gambiano arrestato a Napoli non rappresenta certo una novità, per lo meno in relazione al percorso di indottrinamento-reclutamento e invio di jihadisti “operativi” nel nostro Paese.
Il Sahel
La zona del Sahel rappresenta un enorme bacino di reclutamento per le entità jihadiste operanti nel Continente nero. Da Ansar al Sharia ad Al Qaeda nel Maghreb Islamico, da Boko Haram agli Shaabab, senza tralasciare i Murabitun ed altri gruppi minori, tutti risultano permanentemente impegnati nella ricerca di neofiti da impiegare in azioni locali o, nel caso dei gruppi legati all’Isis, per l’invio di operativi in Occidente. Le masse di migranti in movimento rappresentano un obiettivo primario per i gruppi jihadisti, anche per la relativa facilità di cooptazione di elementi selezionati che si mostrino disponibili ad abbracciare la causa islamista in chiave anti-occidentale.
Non rappresenta certo un caso la volontà espressa dal ministro degli interni Matteo Salvini che, durante la sua visita lampo in Libia, ha proposto l’istituzione di hotspot a sud dei confini del Paese africano.
La pressione esercitata sui confini di Libia e Algeria da una massa di circa 500.000 migranti provenienti dal Sahel e diretti verso le coste, viene a stento arginata dal massiccio impiego di militari algerini schierati al confine, mentre il territorio libico a ridosso dei confini, rappresenta una sorta di terra di nessuno. La costante presenza di carovane di jihadisti diretti verso le enclavi minori ancora sotto il controllo dell’Isis, situate nel sud-est della Tripolitania, sono il vero pericolo per i fragili equilibri che il governo di Tripoli tenta di mantenere.
Mentre nei territori di Niger e Mali le forze speciali statunitensi e francesi agiscono in funzione deterrente, mentre a est della Libia l’esercito del generale Haftar e l’aviazione egiziana tentano di riprendere, al momento senza riuscirvi, il controllo del territorio. Il sud della Libia rappresenta una sorta di terra di nessuno, dove le scorrerie di bande di criminali sono all’ordine del giorno e si mescolano ai raid degli islamisti di Ansar al Sharia piuttosto che di quelli di Al Qaeda nel Maghreb islamico in un mix esplosivo di miliziani, criminali e transfughi dei vari gruppi jihadisti.
I campi di addestramento dell’Isis in Libia
Sono numerosi i campi di addestramento per jihadisti individuati sia nelle regioni a sud-ovest della Tripolitania nei pressi dei confini con la Tunisia, sia nella fascia a nord-ovest, vicino alla città di Sabratha. Mentre nel sud agiscono i miliziani legati ad Al Qaeda nel Maghreb Islamico, nel nord della Libia e nelle regioni del Fezzan e della Cirenaica sono operativi i fedeli di Ansar al Sharia, legati all’Isis, impegnati nell’opera di riorganizzazione dei ranghi e nel rafforzamento delle piccole enclavi ancora sotto il loro controllo localizzate nell’area di Bani Walid e nelle zone limitrofe. All’inizio del mese di giugno un raid aereo condotto proprio nella zona di Bani Walid, con l’utilizzo di un drone presumibilmente americano, ha portato alla neutralizzazione di Abd al Aati Ashtaiwy, un responsabile delle milizie fedeli all’Isis.
Ma ciò che caratterizza principalmente i gruppi jihadisti libici è, comunque, l’estrema mobilità che permette l’istituzione di posti di blocco temporanei o l’esecuzione di raid mirati verso strutture statali o militari non escludendo le razzie in danno di villaggi isolati o il sequestro di interi gruppi di uomini da avviare a un arruolamento forzato.
L’impellente necessità di approvvigionamento di mezzi e, soprattutto, di uomini, rappresenta la vera criticità per i gruppi jihadisti che tentano di rialzare la testa. Il rischio è che il reclutamento volontario o forzoso tra i migranti si riveli una costante anche considerata l’estrema facilità di infiltrazione dei neo- miliziani nei flussi diretti verso l’Europa.
In questa riorganizzazione dei gruppi islamisti nel Maghreb un ruolo focale potrebbe essere ricoperto dalla vecchia guardia dei seguaci della jihad con trascorsi “italiani”. Tra questi, i soliti noti alle cronache nostrane, “il colonnello” Jarraya Khalil, Mehdi Kammoun ed Essid Sami ben Khemais, segnalati mesi fa come strenui difensori di Sirte prima della sua caduta, ma anche Tarek Maaroufi e Nasri Riad, tutti tunisini e indistintamente appartenuti alla cosiddetta “filiera bosniaca”, quella dei reduci del conflitto balcanico degli anni ’90 che, successivamente, avevano creato in Italia un’organizzazione logistico-operativa di sostegno al jihad.