Politici, avvocati e medici. E ancora giornalisti, sacerdoti e appartenenti alle forze dell’ordine oltre, naturalmente, ad alcuni dei “pezzi” più pesanti della ‘ndrangheta dei tre mandamenti reggini e di Vibo Valentia (prima città in Italia per numero di appartenenze massoniche).
Sono centinaia le “relazioni pericolose” che la distrettuale antimafia di Reggio Calabria ha intrecciato tra loro, in un vortice fatto di logge (ufficiali e nascoste) e di affari indicibili, intessuti su un reticolo di conoscenze che lega pezzi delle istituzioni a “malacarne” conclamati.
Tutti elementi venuti fuori nelle tre udienze preliminari del processo “Gohta” e che si riallacciano alla decisione della Commissione parlamentare antimafia che, rompendo una tradizione storica, ha sequestrato – contro il parere dei gran maestri del Goi e delle altre “confessioni” ufficiali, che hanno presentato ricorso al Tribunale del riesame per rientrare in possesso dei preziosi elenchi – gli elenchi calabresi e siciliani degli appassionati di compasso e grembiulino “trattandosi – si legge nel decreto che ha consentito agli uomini della guardia di finanza di accedere agli elenchi fino ad allora tenuti maniacalmente nascosti, sacrificati sull’altare della legge sulla privacy – delle regioni teatro delle principali indagini penali, passate e recenti, in cui si registra un rilevante e crescente numero di appartenenti alla massoneria”.
Sicilia e Calabria nel mirino degli inquirenti
E sono proprio la Sicilia e, soprattutto, la Calabria a finire nel mirino degli inquirenti visto che “è emerso il concreto pericolo dell’infiltrazione di Cosa nostra e della ‘ndrangheta in una parte della massoneria, facilitata dalla riservatezza e dai vincoli di obbedienza che spesso caratterizzano le associazioni massoniche, e si è altresì evidenziato che, parallelamente alla metamorfosi delle associazioni mafiose, sempre più collusive, il componimento di interessi illeciti può avvenire anche attraverso logge massoniche cui talvolta aderiscono esponenti della classa dirigente e dell’imprenditoria del Paese”. Un’analisi lucida quella della Commissione antimafia, che sposa in pieno l’ipotesi d’accusa formulata dalla distrettuale di Reggio che nei giorni scorsi ha chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio di una quarantina di nomi “pesanti” della borghesia reggina (altri 30 imputati hanno scelto di farsi giudicare con la formula del rito abbreviato in un processo che inizierà il prossimo 29 marzo).
La parola ai magistrati
Quella individuata dal procuratore capo di Reggio, Federico Cafiero De Raho, e dal sostituto Giuseppe Musolino, sembrerebbe infatti rappresentare plasticamente quanto messo nero su bianco dalla commissione presieduta da Rosy Bindi: «Una struttura invisibile capace di dare ordine, di interloquire drammaticamente – spiegano i magistrati riferendosi all’operazione che ha portato agli arresti, tra gli altri, il senatore di Gal Caridi, l’ex braccio destro del governatore calabrese Scopelliti ed ex assessore regionale, Alberto Sarra e una serie di professionisti protagonisti della prima e della seconda Repubblica, tutti accusati a vario titolo, di associazione a delinquere e di violazione della legge Anselmi sulle associazioni segrete – delineando le linee strategiche operative dell’organizzazione in Calabria, in Italia e nel resto di Europa e nei continenti dove pervicacemente opera.
Per la prima volta non è la politica che si è messa a disposizione. Qui siamo in presenza di un’altra cosa, è la struttura che managerialmente costruisce uomini per infiltrare ai vari livelli il mondo istituzionale». Un nuovo tipo di masso-mafia quindi, che si mostra come evoluzione della vecchia “Santa” (creata degli anni ’70 per consentire ai casati di ndrangheta di intrecciare rapporti con la massoneria e il mondo degli affari e della politica) e che riporta in primo piano un mondo – quello dei “liberi muratori” – nel quale sono maturate alcune delle pagine più buie della storia calabrese recente.