L’imam di Bologna Zulfiqar Khan, una storia già vissuta. La polemica scatenata dai sermoni jihadisti dell’imam pakistano del centro islamico Iqraa, non dovrebbe aver colto di sorpresa gli addetti ai lavori.
Zulfiqar Khan, l’imam in questione, figura carismatica non solo nella “moschea” Iqraa, ma richiesto anche da altri centri islamici della provincia felsinea, è balzato alle cronache per i suoi sermoni incendiari rivolti contro Israele e l’Occidente sostenendo in toto l’organizzazione terroristica Hamas per l’attacco del 7 ottobre scorso in Israele che provocò più di mille vittime, per lo più cittadini inermi.
Il pakistano, originario del Punjab, una provincia sede di innumerevoli “madaris”, è aderente del gruppo “Jamaat-ud-Dawa” (gruppo di predicazione), noto per diffondere il salafismo non solo nelle regioni contigue.
Jamaat-ud-Dawa, opera a stretto contato con la famigerata “rete Haqqani”, guidata da Sirajuddin Haqqani, figlio del fondatore dell’organizzazione, che coordina personalmente le attività militari e finanziarie, mantiene stretti rapporti con il Mullah Omar e la Shura di Quetta.
Sirajuddin Haqqani si è formato nella madrasa Darul Uloom Haqqania di Akora Khattak, vicino a Peshawar, nella provincia pachistana del Khyber Pakhtunkhwa.
Ciò che rende la “rete Haqqani” un gruppo fondamentalista estremamente longevo sono la rete intessuta negli anni con i Talebani, ad oggi al potere in Afghanistan e l’area di competenza, detta “pashtun belt” che si dipana per 550 chilometri proprio al confine con l’Afghanistan.
Il ruolo di Zulfiqar Khan
Da qui è logico pensare come l’imam di Bologna non debba essere considerato unicamente come un predicatore estremista poiché le sue aderenze ed il suo seguito, banalmente confermato dal sostegno ottenuto sul suo profilo Facebook e su quello del centro Iqraa, da numerosi adepti noti all’intelligence come appartenenti o finanziatori dei gruppi terroristici operanti in Occidente.
I Sermoni di Zulfiqar, enunciati in italiano e tradotti in un misto tra dialetto pashtun e arabo, e la rilevanza del personaggio del quale si parla da mesi a livello massmediatico, non possono passare inosservati.
Come ricordato da Giovanni Giacalone il 14 giugno scorso, “Il 25 maggio Khan citava Hamas per ben tre volte durante il solito sermone presso un centro islamico della provincia di Modena. Al minuto 12:59 Khan affermava: “Questo piccolo guerriero, un gruppo di persone che si chiama Hamas. Loro hanno fatto capire al mondo che questi sono vigliacchi (Israele, sionisti), non possono far niente contro gli uomini, loro possono solo andare contro i bambini, contro le donne, contro i civili”.
In seguito, al minuto 32:47, il predicatore diceva:
“Noi abbiamo visto, tanti fratelli hanno paura di dire che Hamas è un gruppo sincero, mujahidin, perché avevano bombardato su tutti i musulmani d’Europa che per forza devo dire che Hamas è un’organizzazione terrorista. Hanno provato con me anche dal 7/10 in poi, sempre abbiamo avuto questa posizione che Hamas non è un’organizzazione terrorista. Loro stanno difendendo il loro territorio”.
E non è finita, perché al minuto 53:54 dichiarava:
“Noi ringraziamo Allah sws tramite questi guerrieri mujahidin del Hamas che hanno fatto scoprire questa realtà, questa verità, che questi (israeliani, americani) sono terroristi, sono assassini…”.
La genesi degli jihadisti
Un modus operandi, quello evidenziato, sin troppo palese, utile ad attirare le attenzioni dell’opinione pubblica e ad accentrare le attenzioni degli apparati di sicurezza proprio sull’imam pseudo-jihadista.
I contenuti a sostegno del Jihad professati durante le Khutbat (sermoni) da Zulfiqar, altro non sono che delle mere dichiarazioni di sostegno rivolte ai presenti, mirate a radicare nelle loro menti il pensiero che l’Islam sia l’unica soluzione ai problemi del mondo e che solo una completa adesione ai principi ed ai canoni comportamentali contenuti nel Corano nella Sunna (tradizione) possa portare il vero fedele verso la Janna (il paradiso).
Ma il dato fondamentale è fornito dalla genesi dei jihadisti che li portano a divenire veri e propri “miliziani” in seno alle varie organizzazioni terroriste islamiste.
Infatti, i reclutati dei gruppi terroristi, avviano percorsi di adesione alla “Jihad”, in questo caso al femminile poiché da “sforzo viene intesa come “guerra santa”, partendo da semplici inviti a cambiare vita e a frequentare i centri islamici unicamente per essere incanalati all’osservanza quantomeno dei cinque pilastri dell’Islam: la fondamentale testimonianza di fede (shahada), la preghiera (salat), l’elemosina (Zakat), il digiuno (sawm) e il pellegrinaggio (hajj).
Successivamente il soggetto o i soggetti che su input degli indottrinatori accettano di buon grado di attenersi alle citate regole vengono invitati a riunioni estemporanee dove trovano ad accoglierli veri e propri specialisti nel campo della psicologia comportamentale che valutano i vari soggetti selezionando quelli più idonei ai passi successivi.
E’ una prassi consolidata da decenni che mira ad assicurare la continuità operativa dei gruppi jihadisti senza soluzione di continuità.
Un salto indietro nel tempo
Un esempio lampante è quello della moschea An-Nur (la Luce) di Bologna, dove, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, si sviluppò una grande organizzazione terroristica che agiva in favore dei miliziani bosniaci impegnati nella guerra in corso nei Balcani.
In sé, il gruppo fungeva da base logistica, occupandosi di procurare documenti falsi, autovetture riciclate, armi leggere, in favore dei candidati al fronte, ma, successivamente, terminato il conflitto, alcuni vennero tratti in arresto dagli investigatori italiani, che videro vanificati i loro sforzi con la commutazione di pene risibili da parte dell’Autorità giudiziaria, altri si diressero verso il nord Africa, altri in direzione del Pakistan e dell’Afghanistan.
Come volevasi dimostrare, tutti i sodali del gruppo “bolognese” ripresero le loro attività all’inizio del nuovo millennio.
In Bosnia, operavano sotto il “colonnello” Jarraya Khalil e il suo vice, lo yemenita Saleh Nedal. Arrivarono in Bosnia dopo la loro fuga dall’Italia, dove erano sotto processo per attività terroristiche.
Qui, a Srebrenica fondarono un vero e proprio campo di addestramento ed invio al fronte giovandosi della stretta collaborazione del GIA (Gruppo islamico armato) algerino che, oltre che ad avvalersi delle nuove reclute ormai formate per usi propri, forniva finanziamenti e coperture alle attività degli jihadisti “bosniaci”. La copertura per le attività era fornita dall’associazione umanitaria “Al Kifah di Zagabria”, sotto la guida di Kamr Ad Din Khirbani, ex ufficiale dell’aeronautica militare algerina, che era a capo del Fronte di Liberazione Islamico, e stretto collaboratore di Oussama Bin Laden.
Il finanziamento avveniva tramite l’Italia e la Croazia, sempre sotto la copertura dell’associazione Al Kifah. I soldi venivano trasferiti dall’Iran e da altri paesi arabi a Vienna, poi a Zagabria al TWRA, e portati in contanti in Bosnia.
Nel 1998 la Polizia italiana arrestò alcuni componenti del gruppo che operavano a Bologna, ma altri riuscirono a sottrarsi ai fermi fuggendo verso i Balcani. Secondo le informazioni raccolte, il gruppo jihadista era attivo in diversi paesi europei tra i quali Francia, Belgio e Gran Bretagna. Jarraya Khalil nato in Tunisia nel 1969, era il responsabile per il raggiungimento degli obiettivi di portare il Continente europeo verso il panico indiscriminato.
Infatti, dopo aver effettuato diversi atti terroristici in Francia, Gran Bretagna e Belgio, Jarraya Khalil ritornò a Bologna, in Italia, dove assieme a Saleh Nedal, alias Abu Hasim, ed a Nihad Kurtic, tornarono in Bosnia, a Zenica, dove si unirono all’unità El Mujaheed.
Il ruolo fondamentale dell’Iran
Ad ogni buon conto, il ruolo centrale nell’addestramento militare dei miliziani, successivamente arruolati nel nuovo esercito della Bosnia, era tenuto dal servizio di intelligence iraniano, il Vevak.
L’Iran, che è considerato dagli Stati Uniti come una delle nazioni che sponsorizza il terrorismo ed i gruppi radicali in tutto il mondo (Hamas, Hezbollah, Jihad Islamica Palestinese, partito Rafah in Turchia, gruppi radicali e fondamentalisti in Algeria e Egitto), fra il 1992 e la fine del 1995, come aiuto ai “fratelli islamici” in Bosnia, trasferirono la 7^ brigata delle guardie rivoluzionarie, meglio conosciute con il nome di Pasdaran. La forza di questa brigata era di circa 2000 uomini, ed era incorporata nelle forze bosniache. Con il suo quartier generale in Zenica, la brigata iraniana si occupava principalmente di addestrare il personale e partecipò alle operazioni più pericolose. Assieme a questa brigata, l’Iran mantenne un’unità addestrativa di circa 400 ufficiali del Pasdaran e del servizio di intelligence Vevak, per l’alta formazione di personale di intelligence più giovane. La brigata si sciolse nel dicembre 1995, durante la visita di Velajati a Sarajevo.
Un gran numero di agenti dell’intelligence iraniana lavorò attraverso varie organizzazioni umanitarie.
Queste organizzazioni erano principalmente registrate a Zagabria, mentre Mohamed Dzevad Azajes, un importante diplomatico all’Ambasciata iraniana di Zagabria, era il responsabile di sovrintendere al servizio di intelligence ed alle operazioni terroristiche sotto la copertura delle “organizzazioni umanitarie”. La maggior parte di fondi per quelle organizzazioni erano coordinati tramite il fondo Mostafzin (con il patrocinio del servizio di intelligence iraniano) ed un gran numero di fondi dall’Arabia Saudita, tramite Oussama bin Laden, furono elargiti al fondamentalista sudanese Hasan Al Turabi.
Il “colonnello” Jarraya
L’emblematica figura di Jarraya Khalil, sino alla sua scarcerazione ed alla sua espulsione verso il paese d’origine, viene ricordata come quella di un vero leader, capace di coartare le menti di almeno due generazioni di giovani che, in buona parte, aderendo ai principi inculcati loro durante la detenzione, usciti dal carcere, si sono dedicati in parte alla mera predicazione, ma anche, seppur in percentuale più bassa, a veri progetti jihadisti da realizzare aderendo alle varie cellule in Europa o recandosi direttamente entro i confini dell’allora neonato califfato di Abu Bakr Al Baghdadi.
Nei suoi trascorsi italiani, Jarraya, riuscì a consolidare le attività del folto gruppo bolognese di aspiranti jihadisti, avvalendosi anche del supporto di delinquenti comuni: semplici falsificatori di documenti, ladri di auto e titolari di agenzie per il trasferimento di denaro.
“Procurarsi scarpe e vestiti per andare a giocare a calcio facendo una traversata”. La frase di per sé innocente, in un contesto di normalità farebbe pensare ad una conversazione tra due turisti in procinto di partire.
Ma nel 1997, un dialogo di questo tipo era da interpretare come ottenere documenti falsi per partecipare ad una riunione dopo un viaggio in Bosnia. E gli interlocutori, intercettati dalla Procura di Bologna, non erano turisti, ma i maghrebini riuniti in una vera e propria cellula jihadista impegnata nel procacciamento di documenti falsi, denaro, armi per il sostegno ad organizzazioni paritetiche che agivano in Europa e nei Balcani allo scopo di internazionalizzare la Jihad.
Un passato che appare lontano se non fosse che i protagonisti di dialoghi come quello riportato sono poi riemersi, dopo le primavere arabe, come jihadisti impegnati nel conflitto in Libia. Mujaheddin dal passato italiano che dopo le lievi pene scontate nelle galere della Penisola, non certo redenti, hanno ricominciato la loro peregrinazione in cerca della morte eroica che consentisse loro di bearsi delle 72 vergini in Paradiso.
Tra loro molti avevano seguito i corsi di addestramento in quello che nel gergo jihadista era noto come “Haidora”, da haia dora cioè giro nel cerchio, l’Afghanistan. Proprio il soprannome di afghani, quindi reduci e nominati mujaheddin li rendeva quasi sacri agli occhi degli adepti che in estasi li udivano commentare le sure coraniche dando un significato quasi nuovo alle sacre scritture che venivano reinterpretate ad uso e consumo degli astanti in chiave jihadista.
Ma anche Peshawar, nel nord del Pakistan, era la meta preferita dagli aspiranti mujaheddin. Città non lontana dal confine con l’Afghanistan, era la residenza dell’ex muratore Moez Fezzani ben Abdelkader, tunisino, responsabile dell’Isis in Libia. Dal Pakistan Fezzani manteneva i contatti con le cellule italiane e si occupava dell’accoglienza dei tunisini diretti in Afghanistan.
Proprio i reduci dall’addestramento nei campi di Al Qaeda ed altri miliziani nel conflitto balcanico degli anni’90 hanno quindi trovato il modo di continuare a perseguire il loro folle ideale di jihad.
Jarraya Khalil, aveva trovato alloggio a Sarajevo non lontano dalla sede di una moschea nota per essere legata al movimento integralista wahabita locale. Ma il suo attivismo lo portava spesso in provincia di Bologna, da dove impartiva ordini alle varie cellule collegate a quelle esistenti in Francia e Belgio, nazioni per le quali erano stati preparati piani di azione in danno della popolazione e di edifici civili allo scopo di esportare la jihad sul continente europeo.
Arrestato e detenuto in Italia, nel 2015 venne espulso alla volta di Sfax, in Tunisia, dove rimase detenuto sino al 2015, quando la rivoluzione nel frattempo scatenatasi nel paese, consentì l’evasione dal carcere non solo di Jarraya, ma anche di altri soggetti a lui connessi.
Nella città portuale di Sfax, quotidianamente si organizzano i viaggi dei clandestini alla volta della Sicilia e Jarraya pare si sia interessato all’attività per continuare la sua jihad questa volta in chiave logistica, trasferendo i fondi raccolti dai profughi direttamente nelle casse dell’Isis in Libia.
Tra il Fezzani e Jarraya il trait d’union, oltre ai comuni trascorsi in Italia, sono gli altri miliziani di comune conoscenza. Anche Essid Sami ben Khemais aveva da tempo ripreso le sue attività di supporto al terrorismo, dapprima apparendo a fianco di Seifallah ben Hassine, Abu Iyad, e successivamente prendendo parte ai combattimenti in Libia, ovviamente schierandosi con il Califfato. Essid Sami è noto alle cronache per essere il tunisino residente in provincia di Varese che durante le intercettazioni ambientali conversava amabilmente sulle modalità per colpire i paesi europei con armi chimiche confezionate artigianalmente. Ma la corte europea dei diritti dell’uomo nel 2009 ha condannato l’Italia per il rimpatrio forzato del tunisino poiché ha stabilito che nel paese nordafricano l’uomo sarebbe stato rinchiuso in un carcere rinomato per le torture ai detenuti subendo trattamenti disumani.
A Tunisi nel 2009 viene rimpatriato anche Tarek Maaroufi, complice di Essid Sami, balzato alle cronache per il suo coinvolgimento nell’omicidio di Ahmed Shah Massoud, leader della resistenza afghana contro i talebani, morto in Aghanistan nel 2001 per mano di due tunisini travestitisi da giornalisti ma imbottiti di esplosivo. Proprio Maaroufi avrebbe capeggiato il commando di attentatori ed anche se sul suo conto le notizie sono frammentarie, è ipotizzabile un suo coinvolgimento diretto con le milizie dell’Isis, tenuto conto della sua abilità di mujaheddin ed il suo credo profondamente radicato ed anti occidentale.
Anche Nasri Riad e Mehdi Kammoun, entrambi tunisini ed in stretto collegamento con Jarraya Khalil ed Essid Sami, sarebbero stati segnalati proprio nella Sirte. La loro storia giudiziaria segue lo stesso filone tracciato per gli altri, i sentimenti antisionismo e antioccidentali, l’addestramento, il passato in Italia e l’adesione al Califfato.
Il racconto che precede dovrebbe essere di monito a coloro i quali sono delegati ad assicurare la giustizia in Italia.
Personaggi come Zulfiqar Khan, non unico a perorare la causa jihadista in funzione anti-israeliana e anti-occidentale, non ricoprono posizioni di vertice in alcuna organizzazione. Rappresentano unicamente degli utili strumenti per la diffusione del credo islamista tra la comunità musulmana, in attesa di rilevare la presenza di qualche giovane disposto ad immolarsi per la causa dell’instaurazione del Califfato in Europa.
In Italia, con una popolazione di oltre 55 mila detenuti, di cui il 30% stranieri e tra questi il 20% di religione musulmana, appare subito evidente il pericolo del contagio del virus dell’indottrinamento allo jihadismo, e se è vero che non tutti sono da ritenere “terroristi, è pur vero che l’effetto dei reclutatori sui detenuti più deboli ed emarginati potrebbe avere un effetto devastante.
L’organizzazione terroristica islamica è stata quindi in grado di mettere in atto un sistema propagandistico tale da far impallidire le migliori intelligence mondiali, utilizzando strumenti formalmente “leciti” forniti dall’Occidente per aumentare la propria presa sulle coscienze.