Il risultato delle primarie socialiste francesi dello scorso fine settimana hanno consegnato a Matteo Renzi e al Partito democratico il compito di rilanciare l’eredità della tradizione socialdemocratica europea, in crisi (e in minoranza) in praticamente tutti i grandi paesi della comunità. Il Partito democratico, infatti, con la scadenza ormai prossima del mandato di Hollande, si appresta a diventare l’unica forza politica europea di centrosinistra di un certo peso ad esprimere il capo del governo e a risultare, sondaggi alla mano, il primo partito nazionale o, comunque, l’unico ad avere concrete chance di vittoria alle prossime elezioni.
L’Europa, nel 2017, è attesa da una serie di cruciali eventi politici che rischiano di tagliare fuori, e in modo clamoroso, tutte quelle grandi forze di stampo socialista che, solo pochi anni fa, portarono alla vittoria personalità quali Mitterrand, Blair, Schröder, Prodi, Zapatero. Di quel patrimonio alla sinistra europea non rimane più nulla, né sotto il punto di vista umano né, tantomeno, sotto l’aspetto più spiccatamente politico. Vedere il Partito democratico, un contenitore nato dalle ceneri delle due più grandi ideologie italiane, quella popolare e quella comunista, trovarsi a raccogliere il testimone delle antiche formazioni di tradizione socialdemocratica fa un certo effetto. Come pure fa effetto che il più grande partito “socialista” d’Europa, il più numeroso nel gruppo del Pse, sia proprio l’unico che nel proprio nome e nel proprio simbolo non si richiami affatto alla tradizione socialista e socialdemocratica europea. Se per Renzi il ruolo di salvatore della tradizione socialdemocratica europea potrebbe rappresentare una “medaglia” di non poco conto, sarebbe sciocco non annoverare i rischi di un ulteriore smottamento dei partiti socialisti europei. Il timore è che Renzi, con il Pd, possa trovarsi in una ipotetica “prima fila” dietro la quale, però, rimarrebbero solo le macerie.
Nulla, né in Francia, né in Germania né in Regno Unito lascia presagire che la sinistra possa quantomeno giocarsi un ruolo decisivo nelle prossime scadenze elettorali. Il Partito socialista francese, il Labour e, in maniera minore, l’Spd tedesco sono alle prese, ormai da anni, con lotte interne senza precedenti tra la tradizione più moderata e la fazione più oltranzista “left-left”: sia a Parigi che a Londra Hamon e Corbyn hanno stravinto su un programma decisamente di sinistra rispetto a quelli dei loro avversari mentre Italia, nonostante le fatwe dalemiane che invocano la scissione, la situazione appare decisamente differente. Nel nostro panorama politico non vi è, come in Spagna con Podemos, come nel Regno Unito con gli indipendentisti scozzesi (di tendenza socialdemocratica) o come in Francia con Macron e Melenchon, il rischio concreto che una candidatura, pur minoritaria, possa essere talmente forte da mettere a repentaglio il fondamentale ruolo del Pd alle future elezioni politiche. Come pure, al di là delle battaglie politiche di Salvini e Meloni, non esiste, almeno che non si voglia far rientrare ancora oggi in tale categoria il Movimento 5 stelle, un raggruppamento politico di stampo populistico con ampie possibilità di successo. Non solo in Europa, dunque: la solitudine di Renzi è anche, soprattutto, italiana.
Ci si chiederà come mai, a differenza di questi altri paesi, in Italia la situazione sia così statica, così semplice, financo così prevedibile. La ragione è quanto mai ovvia: ancora una volta, la quarta nel giro di dieci anni, non conosciamo le regole del gioco. Ancora oggi, a circa dodici mesi dalla scadenza naturale della legislatura, non sappiamo con quale sistema elettorale ci recheremo alle urne. Il tutto, ovviamente, rende le posizioni politiche degli attori in campo fortemente condizionate da ciò che il legislatore, forse, deciderà di fare nell’opera di una, eventuale, armonizzazione tra le “leggi” elettorali che regolano Camera e Senato. Non solo. L‘opera di riorganizzazione politica dei partiti e dei “cespugli”, di maggioranza e opposizione, appare, da anni, per questi motivi, sempre bloccata sul nascere. Il mutamento genetico della famiglia popolare europea mal si concilia con una ripresa, a pieno regime, dell’attività politica di Forza Italia, il maggior partito della destra moderata italiana. Se dopo l’elezione di Antonio Tajani alla presidenza del Parlamento appare impossibile un cambio di casacca, di certo, mai come in questi ultimi mesi, il ricordo della rivoluzione liberale dei primi anni gloriosi del berlusconismo potrebbe favorire una ricomposizione del centro destra in senso liberale. E se ormai, la grande parte dei cattolici italiani si riconosce o nel Pd o nei meandri di Area Popolare e dell’Udc a Berlusconi potrebbe giovare la promozione di un raggruppamento totalmente nuovo, che guardi, come nei primissimi anni, più che alla destra popolare alla destra liberale europea. Solo una analisi superficiale potrebbe derubricare a mera convenienza tattica il tentativo del Movimento 5 stelle di avvicinarsi all’Alde: sotto, anche se nascosto dai principali attori di quella trattativa, vi è un progressivo consenso rispetto ai cavalli storici di questa tradizione: lo stop ai monopoli, le privatizzazioni di enti inutili, maggiore attenzione alle esigenze dei territori a fronte del decisionismo avulso di Bruxelles fino allo stop alle ingerenze statali nella concorrenza e nel libero mercato. Il Movimento cinque stelle di oggi non è più, come un tempo, fuori dal palazzo e, per legittimare ancora la sua politica di lotta e di governo, ha bisogno di un palazzo che sia anche di lotta: quale miglior famiglia per condurre tali campagne se non quella liberale?
Di positivo c’è che, pur nell’incertezza che regna dai palazzi del potere alle segreterie di partito, di una cosa si è sicuri: i capisaldi della tradizione liberale verranno ripresi, secondo la rispettiva convenienza, da tutti i giocatori del campo elettorale. E visto il ruolo di Renzi, impiegato a raccogliere i cocci delle esperienze del centrosinistra italiano ed europeo, l’eredità liberale verrà contesa proprio da Grillo e da Berlusconi. E chi ha maggiori probabilità di successo non può essere nessuno se non l’attore che saprà brandirla al meglio.