Tra tutti gli appuntamenti elettorali a carattere interno che hanno visto protagonista il Pd e la sua corposa macchina interna, quello in corso in questi giorni appare come il meno numericamente e mediaticamente rilevante. Facendo un rapido raffronto, moltissime sono le differenze, infatti, tra le manifestazioni che “fondarono” il Pd nel 2007, incoronando Walter Veltroni, e quelle relative alla sfida Franceschini-Bersani , senza contare le primarie per la leadership del 2012, vinte agevolmente da Pier Luigi Bersani contro un barricadero Matteo Renzi agli esordi.
I numeri anzitutto: mai, come in questo congresso, la partecipazione è stata così esigua: solo il 59,29%, pari a 266.726 votanti (nel congresso del 2009, per dire, i votanti erano stati 462.904 e nel 2013 296.645) non rappresentano certo un segnale incoraggiante per quello che è, di fatto, l’unico vero partito organizzato d’Italia. Suscita dunque ironia il tweet di Matteo Renzi che, commentando i risultati di questa prima fase congressuale, parla (ma si riferisce alle “sue” percentuali) di “numeri impressionanti”: impressionanti perché mai, come stavolta, la partecipazione era stata così bassa.
Equilibri interni stravolti
Proviamo a dare qualche risposta: mai, prima d’ora, se si esclude il 2007 (dove però il Pd ancora non esisteva) i militanti democratici erano stati chiamati a rinnovare le cariche dopo una lunga fase di governo. Se non vi è alcun dubbio sul fatto che, storicamente, i partiti di sinistra facciano il pieno di partecipazione quando si trovino all’opposizione, non può sfuggire come il più grande partito progressista d’Europa sia di fronte a una crisi d’identità così profonda. Gli equilibri interni, che sembravano cristallizzati dalle regole di ingaggio del primo Lingotto di Veltroni, appaiono stravolti: non esiste più quello che era il cuore e l’anima del Pd “classico”: la componente Ds, che rappresentava, all’inizio, più del 60% della struttura interna, si è sostanzialmente liquefatta: Civati, Speranza e Bersani sono fuoriusciti, Orlando, Finocchiaro e l’area vicina al Presidente emerito Napolitano appartengono a una residua minoranza (che, comunque vadano le cose, rimarrà alleata di Renzi) mentre Fassino e Veltroni, i veri organizzatori del Pd storico si trovano fiaccamente nell’area renziana meno entusiasta dei protagonismi leaderistici del segretario uscente.
Rimane l’anima un pò più radical, ora rappresentata da Michele Emiliano e prima controllata, con un buon 15%, da Ignazio Marino e Goffredo Bettini. Dall’altra parte spopolano gli ex DL, i quali, partiti con una rappresentanza piuttosto minoritaria, controllano oggi tutti i posti di comando: non è un caso che a Palazzo Chigi (con Gentiloni come con Renzi) e al Quirinale, gli inquilini siano, tutti, espressione della disciolta Margherita rutelliana. In effetti, quello che si appresta a uscire alle prossime primarie che, prevedibilmente, incoroneranno di nuovo Matteo Renzi, è un Pd tutto nuovo, non più in grado di fare il pienone alle primarie a causa dell’allontanamento (più o meno volontario), de facto, dei militanti più organizzati e provenienti dall’area del vecchio Pci.
Con il probabile sistema proporzionale che va affermandosi, la sinistra italiana, unica area politica ad aver governato solo con sistemi elettorali maggioritari, sarà chiamata alla prova di un complicatissimo schema di alleanze che, probabilmente, ripeterà in formato baobab ciò che ha sperimentato in questi quattro lunghi anni in formato bonsai: sinistra-centrodestra. Con quali interlocutori avverrà tale alleanza, non è dato ancora sapere. Di certo c’è che Berlusconi, ancora in crisi esistenziale tra l’ok alla partnership con Meloni e Salvini e un assembramento dei cespugli cattolici e liberali, è pronto a giocarsi le sue carte. Magari guardando proprio a qualche esponente di maggioranza (e di governo) non troppo allineato con secondo renzismo che si va, mano mano, affermandosi. Di certo c’è che, nell’ultima domenica di aprile, il quadro sarà meno articolato. Non ci resta che aspettare.