Nella carceri italiane ci sono non più di 360 detenuti musulmani considerati radicalizzati. Tra questi, 167 sono i presunti terroristi. Anche se rappresenta una realtà meno allarmante rispetto a quella di altri Paesi europei, non sgombera il campo da eventuali rischi per la sicurezza nazionale e la percezione che di questa hanno i cittadini italiani. L’Italia, infatti, da tempo si trova a fare i conti con il fenomeno dell’indottrinamento in carcere. Da Al Qaeda all’Isis poco è cambiato.
Con una popolazione di oltre 55 mila detenuti, di cui il 30% stranieri e tra questi il 20% di religione musulmana, appare subito evidente il pericolo del contagio del virus dell’indottrinamento allo jihadismo. Se è vero che non tutti sono da ritenere “terroristi, è pur vero che l’effetto dei reclutatori sui detenuti più deboli ed emarginati potrebbe avere un effetto devastante.
Già a dopo la metà degli anni ’90, nei nostri istituti penitenziari si sono succedute presenze di reduci della guerra russo – afghana, delle rivolte algerine e della guerra balcanica che, forti del loro bagaglio di esperienze maturate sul terreno e del derivante carisma acquisito, riuscirono ad operare all’interno delle carceri manipolando psiche e coscienza di altri più giovani detenuti di fede islamica, che in poco tempo aderirono agli ideali dei mujaheddin veterani. In questa attività hanno trovato terreno fertile soprattutto gli aderenti alla filiera bosniaca, tra i quali spicca la figura del “colonnello” Jarraya Khalil, alias Amro: un tunisino, ex appartenente al battaglione dei mujaheddin di Zenica. Durante la guerra bosniaca riuscì ad organizzare a Bologna una rete di sostegno ai combattenti nell’ex Yugoslavia, avvalendosi della manovalanza di delinquenti comuni che, seppur non rientranti nella categoria dei “radicali islamici”, fornirono comunque un substrato di appoggio e copertura per le attività di sostegno e reclutamento dei combattenti.
La cellula, smantellata alla fine degli anni ’90 dalle forze di polizia, continuò ad operare anche dall’interno degli istituti di pena, avvalendosi degli incontri di colloquio con parenti e connazionali che si prestavano a ricoprire l’incarico di “messaggeri” con gli operativi esterni al regime carcerario.
L’emblematica figura di Jarraya, fino alla sua scarcerazione e all’espulsione verso il paese d’origine, viene ricordata come quella di un vero leader, capace di coartare le menti di almeno due generazioni di giovani che, in buona parte, aderendo ai principi inculcati durante la detenzione, usciti dal carcere si sono dedicati in parte alla mera predicazione, ma anche, seppur in percentuale più bassa, a veri progetti jihadisti da realizzare aderendo alle varie cellule in Europa o recandosi direttamente entro i confini del neonato Califfato di Abu Bakr Al Baghdadi.
Il fenomeno dell’indottrinamento, finalizzato ad un’adesione ai principi islamisti, è stato oggetto di approfondite analisi da parte delle varie intelligence mondiali quasi tutte convertite all’ipotesi che gli adepti delle organizzazioni terroristiche operino il cosiddetto “fai da te”, l’auto-radicalizzazione ottenuta con mezzi modestissimi ed a basso costo, come il web. A fronte della realtà innegabile del jihadismo da tastiera, è pur vero che il reclutamento nelle carceri rimane un punto poco esplorato e di evidente aderenza alla realtà. Il senso di appartenenza e di adesione ad un gruppo che raccolga lingua, tradizioni e soprattutto volontà di rivincita nei confronti della società che li ha marginalizzati, sono le caratteristiche di ritratti psicologici che i “reclutatori” ben conoscono, e abilmente sfruttano al fine di deviare le personalità di giovani detenuti di origine araba che oppongono ben poca resistenza di fronte a figure così carismatiche che, finalmente, danno loro l’opportunità di sentirsi qualcuno all’interno di qualcosa.
Un ruolo non secondario è ricoperto anche dagli “assistenti spirituali” provenienti dall’esterno delle carceri che, agendo in qualità di emissari per conto dell’organizzazione “madre” e avvalendosi del loro potere quasi ipnotico di “imam itineranti”, individuano i soggetti più consoni all’opera di re-indirizzamento ideologico in favore degli ideali dell’ortodossia islamica. Le organizzazioni terroristiche di matrice islamica, dunque, sono state in grado di mettere in atto un sistema propagandistico tale da far impallidire le migliori intelligence mondiali (utilizzando strumenti formalmente leciti forniti dall’Occidente) per aumentare la propria presa sulle coscienze dei “fratelli” più deboli.