Il traffico di armi iraniano coinvolge direttamente l’Italia, una storia che inizia negli anni ’80 anche con la copertura dell’indiscriminata invasione islamica alla base dei traffici clandestini.
L’Occidente e l’Italia in particolare si è adeguata, per non dire rassegnata, ad un’ invasione da parte di una miriade di sedicenti profughi da fantasiosi conflitti, dimenticando la tutela della popolazione autoctona dalle diverse abitudini e dalle multiformi tradizioni dei nuovi arrivati, con l’aggravante che queste rotte clandestine vengano utilizzate anche dai trafficanti di armi.
Qualcuno espone tale concetto in modo assai estremo con l’assunto che segue: “Se importi il terzo mondo, diventi il Terzo mondo”. Una frase che racchiude in se la realtà quotidiana laddove, anche secondo studi statistici di settore, la percentuale di stranieri che commettono reati, soprattutto a sfondo sessuale, è più alta degli italiani colpevoli di tali atti. Inoltre, l’arroganza palesata nell’occupazione di interi quartieri nelle grandi città, così come di singole abitazioni, che portano alla creazione di vere e proprie “no go zone”, dimostra ampiamente come la debolezza ed il sentimento buonista palesato dal nostro Paese, si sia dimostrato completamente inadeguato ai nuovi arrivati. In sovrappiù, la componente religiosa gioca un ruolo fondamentale nel sottile filo che unisce accoglienza, arroganza e traffici clandestini, laddove, inoltre, la maggioranza degli stranieri di credo islamico pretende di ottenere luoghi di culto se non addirittura di propendere per la creazione di un Califfato in tutta Europa.
Anche in questo caso è giusto citare nuovamente Samuel P. Huntington nel suo saggio “Lo scontro delle civiltà”, quando afferma che “La modernizzazione economica e sociale ha raggiunto dimensioni mondiali, eppure al tempo stesso si è verificata una generale rinascita religiosa. Questo fenomeno, la revanche de Dieu, come l’ha definita Gilles Kepel, ha interessato tutti i continenti, tutte le civiltà, praticamente tutti i paesi. L’obiettivo, insomma non era più modernizzare l’Islam, ma bensì ‘islamizzare la modernità’”.
In relazione proprio a tale affermazione, l’Islam sciita, per mano di Hezbollah, ha mostrato sin dalla nascita, nel giugno 1982, del movimento terrorista una tendenza a “farsi stato”, ovvero di agire in Libano come uno stato nello stato. Questo sebbene l’Unione europea, in forte ritardo, abbia dichiarato, solo nel 2013, l’ala militare di Hezbollah come “gruppo terrorista” seguita a ruota nel 2017 dalla Lega araba con l’obiettivo di forzare il governo libanese a privare di ogni potere deliberatamente assunto il partito sciita.
Ma Hezbollah, guidato dal suo segretario generale Hassan Nasrallah, succeduto ad Abbas Al-Musawi a causa della morte di quest’ultimo nel 1992, ha proseguito nel suo folle progetto con il fondamentale contributo dell’Iran e con il giuramento di fedeltà all’allora guida spirituale ayatollah Khomeini e, successivamente ai suoi successori, ottenendo come moneta di scambio ingenti supporti economici e militari.
La connessione fenomenologica con l’immigrazione clandestina diviene puramente pragmatica poiché la manovalanza di intere masse di immigrati si sente in debito con chi ha fornito loro i mezzi per questa invasione ed il successivo stanziamento in territori considerati “Dar al kufr”, ovvero, la “casa della miscredenza”. Da qui a stabilire che l’Occidente divenga successivamente la “Dar al hard”, la casa della guerra”, il passo diviene breve.
Israele come baluardo all’espansionismo islamista
É da qui che si consolida l’inasprimento nel confronto con Israele, nemico giurato degli islamisti e lo stillicidio della perpetrazione di continui attentati di varia entità. Sulla base di questi assunti, non potevano certo mancare le sanzioni verso il regime iraniano degli ayatollah commutate da numerosi Paesi della comunità internazionale e, come d’uopo, anche ai trasgressori a tali provvedimenti intenzionati ad accaparrarsi un mercato fiorente: quello di Teheran. L’Italia, da par suo, è stata direttamente coinvolta nel fenomeno dei commerci illegali con l’Iran, avendo intessuto una intensa rete di conoscenze con elementi di spicco del regime. Una storia che inizia a metà degli anni ’80.
Il nostro paese spediva migliaia di tonnellate di esplosivo a Teheran
Dal 1985, la società Tirrena industriale ha smistato enormi carichi di polvere da sparo per conto dei grandi produttori imbarcandoli nel porto di Talamone con destinazione Bassora. Queste migliaia di tonnellate di polveri, da un’ inchiesta condotta nel 1987 dal settimanale “L’Espresso”, erano custoditi in una polveriera del nostro esercito a Versegge, in provincia di Grosseto.
Coinvolta nel traffico, l’azienda “Valsella Meccanotecnica” di Brescia, accusata di avere venduto almeno 1 milione di mine all’Iran utilizzando per l’accantonamento temporaneo depositi di munizioni dell’esercito italiano con la connivenza del Governo che, oltremodo, aveva concesso le licenze per l’esportazione verso un paese coinvolto in una sanguinosa guerra.
Da Roma, al ministero della Difesa, confermarono che “Si’ , le forze armate possono temporaneamente custodire materiale esplosivo di società private”. E a Grosseto? “Ragioni di riserbo impediscono di fornire ulteriori indicazioni. Comunque rispettiamo gli embarghi decisi dal governo”.
In effetti nel 1984, anno della firma dei contratti per l’esportazione verso l’Iran, in Italia é perfettamente legale vendere armi sia all’ Iran sia all’ Iraq. Nel concedere le licenze di esportazione, il nostro Ministero degli Esteri deve unicamente bilanciare l’esportazione verso Baghdad e Teheran con l’unico divieto di fornire agli ayatollah materiale elettronico particolarmente sofisticato, definito “di importanza strategica” per timore che finisca in mano ai russi, e solo perché esso violerebbe un divieto imposto dagli Stati Uniti.
A Roma, l’azienda “Tirrena Industriale” con stabilimento a Pomezia, specializzata nella produzione di parti metalliche per munizioni, rifornisce l’Iran di munizioni ed esplosivi. Ha le licenze in regola, un rappresentante a Teheran ed ottimi introiti dal ministero degli Esteri.
Ma quando Sazemane Sanaye Defa, l’ Organizzazione delle industrie della difesa iraniane, richiede 5. 300 tonnellate di polvere da sparo per i suoi cannoni (made in Usa) M4A2 da 155 millimetri e per gli howitzer da 105, la Tirrena Industriale comprende di non poter fare fronte ad un simile gravoso impegno.
Entra allora in campo un consorzio europeo di fabbricanti di esplosivi, lo stesso che è stato partner d’affari della Valsella e che ha un nome chilometrico, l’Easspp (Associazione europea per lo studio dei problemi di sicurezza di polveri e propellenti). Le aziende del consorzio hanno un grave handicap: i loro governi sono più severi di quello italiano nell’impedire esportazioni belliche verso paesi in guerra. Ma potevano risolvere ogni problema se vendevano il loro prodotto a una società italiana, la quale poi a sua volta soddisfava il cliente iraniano. Insomma, per anni proprio l’Italia ha rappresentato il lato “sporco” dei triangoli che permettono di aggirare i divieti all’export d’ armi verso i paesi belligeranti. Il contratto viene firmato il 15 marzo 1984 .
Il settimanale francese Evenement du Jeudi si occupò di indagare fra le 5 mila pagine di un’inchiesta conclusa da Sivagard Falkenland, ispettore capo delle dogane svedesi, ottenendo le rivelazioni del traffico di esplosivi fra la Bofors Nobel di Stoccolma, la Valsella e l’Iran. Ma in quelle stesse pagine c’è una seconda pista che riguarda l’Italia. Fra i documenti sequestrati nella sede della Bofors Nobel, infatti, si trovano le prove di un’altra grossa “triangolazione”. Destinazione finale Teheran. E con due tappe intermedie fondamentali, entrambe in provincia di Grosseto: il deposito di Versegge e il porto di Talamone. Qui le navi dell’ Iran sono venute a caricare 5.300 tonnellate di polvere da sparo per un valore di circa 75 miliardi di lire. Le operazioni sono continuate indisturbate fino al 1985 inoltrato. Sulla scorta delle rivelazioni di un ingegnere svedese, Ingvar Bratt, convertito al pacifismo, che aveva rivelato alla Spaas, l’associazione antimilitarista svedese, tutti i segreti dell’ azienda dove lavorava, la Bofors Nobel, specializzata nel fabbricare esplosivi incappa in un grosso scandalo. Inchieste, perquisizioni, interrogatori e arresti causati dalla propensione alla neutralità politica del Paese scandinavo coinvolto, nel contempo, nell’esportazione di armamenti ed esplosivi verso l’Iran, un paese in guerra violando le proprie leggi sull’export bellico. A seguito dell’inchiesta della magistratura di Stoccolma, l’ amministratore delegato viene rimosso dal suo incarico mentre i 4.700 dipendenti tremano.
In mezzo alla vicenda trova spazio anche una “strana morte”, quella del contrammiraglio Karl Fredrik Algernon, stravolto da un treno della metropolitana di Stoccolma in gennaio. Omicidio o suicidio? Di certo vi è solo il rilievo che Algernon era il responsabile delle licenze per le esportazioni di armi, che era accusato dai pacifisti di essere complice dei traffici illegali della Bofors e che un’ora prima dell’incidente aveva avuto un tempestoso colloquio col direttore dell’azienda svedese incriminata.
Ciò posto, con perfetto spirito europeista, la Tirrena Industriale acquista 5.300 tonnellate di polvere da sparo per i cannoni degli ayatollah suddividendo equamente gli ordini fra la svedese Bofors la francese Nobelfrancese Snpe (Societe’ nationale des poudres et explosifs), la scozzese Nobel explosives, la belga Prb e l’olandese Muiden. Il prezzo é in marchi tedeschi e si aggira su un totale di 75 miliardi di lire. Il pagamento avviene in due fasi: il 10 per cento è anticipato, con garanzia della Banca nazionale del lavoro (documento del 17/2/1984) , il resto alla consegna. E, per la consegna dei vari lotti, uno al mese per venti mesi, l’indirizzo che i produttori stranieri devono apporre sui vagoni ferroviari pieni di polvere da sparo è quello della Tirrena Industriale, c/o Deposito militare, 58035 Versegge (Grosseto), Italy (documento del 15/3/1984) .
La motivazione dell’utilizzo di deposito militare in territorio italiano è semplice. Infatti, tutti i produttori di armi italiani fanno custodire e collaudare il materiale destinato all’estero dalle nostre forze armate. Anche quando gli acquirenti si chiamano Khomeyni o Gheddafi. Centinaia di cannoni e obici dell’ Oto Melara, per esempio, vennero puliti, controllati e messi a punto dai militari italiani prima di essere spediti in Libia, nostro potenziale nemico. Le spese di immagazzinamento e vigilanza delle merci non risultavano elevate, anche perché di solito le aziende “nostrane” sono le uniche fornitrici per il nostro esercito. E questo spesso si ritiene soddisfatto semplicemente dal poter utilizzare una parte delle munizioni o delle armi per le proprie esercitazioni: un pagamento in natura, insomma.
Qualche disaccordo, invece, vi fu sulle modalità di pagamento fra la Tirrena Industriale e i suoi fornitori: loro volevano l’anticipo del 10 per cento subito, su tutto il valore del contratto, gli italiani invece lo volevano scaglionare al ritmo delle consegne mensili (documento del 2/11/1983). Alla fine ebbe la meglio la Tirrena.
L’estate 1984, è quella della spedizione dei nostri cacciamine a “ripulire” il Mar Rosso. E li’ cominciano i guai per l’export allegro verso l’Iran e l’Iraq: sull’onda delle proteste dell’opinione pubblica il governo stringe la corda e non rinnova più le licenze verso i due paesi in guerra. Ma la licenza della Tirrena Industriale è valida fino all’aprile del 1985, e non viene revocata. Ogni mese, tranquillamente, arriva un carico di 300 tonnellate a Versegge. E dopo qualche giorno la polvere da sparo per i cannoni che bombardano Bassora percorre i 40 chilometri che separano Versegge da Talamone, il famoso porto che detiene la quasi totalità del monopolio dei trasporti bellici dall’Italia verso l’estero. Lì attendono navi iraniane che la caricano e la portano a Bandar Abbas. Contemporaneamente da Talamone partono, nel 1985, anche i carichi per l’Iraq. Ma siccome Baghdad non possiede una flotta e non ha porti, e poiché in ogni caso le sue navi verrebbero facilmente individuate e bombardate dagli iraniani nello stretto di Hormuz, armi e munizioni italiane per l’Iraq viaggiano su navi terze. Se poi si trattava di traffici “sporchi”, provenienti cioè da paesi che avevano dichiarato l’ embargo, allora entravano in gioco gli armatori danesi, pronti ad ogni avventura .
Scaduta la licenza la Tirrena non può più far fronte ai propri impegni (documento del 3/5/1985). Nessun problema per i fornitori nordeuropei: smistano il traffico sui porti dell’allora Jugoslavia e su navi tedesche e danesi. Ma sul conto della Banca nazionale del lavoro restano bloccati alcuni miliardi: gli anticipi delle ultime partite arrivate a Versegge ma mai potute partire da Talamone. “Quei nostri soldi sono ancora li”, si lamentano alla Tirrena, “anche se l’inadempienza non è colpa nostra: è stato un “fatto del principe”, come redatto in inglese sulle polizze di carico per indicare un intervento politico. Adesso nella rada del porticciolo toscano che accoglieva navi dalle più svariate bandiere, tutte affamate di armi made in Italy, c’è il deserto. O meglio: c’è il pieno, ma di motoscafi e imbarcazioni turistiche.
Le ragioni di questo crollo dell’export sono due: la stagione estiva e il decreto Formica del 2 dicembre 1986. Quest’ultimo accadimento, paragonato alla peste da tutti i fabbricanti ed esportatori d’ armi italiani, fece cadere verticalmente le nostre esportazioni belliche, poiché impose controlli e condizioni severissimi per il rilascio delle licenze .
Ecco, questo é il racconto di uno dei tanti business con l’Iran come quello della Valsella e molti altri che possono essere scandali solo in Svezia. Perché per anni migliaia di italiani hanno lavorato, guadagnato e mangiato vendendo armi e munizioni, mine e polvere da sparo, sia all’Iran sia all’Iraq. E in regola con tutti i timbri e tutte le leggi. Se non con quelle della morale, per lo meno con quelle palesate dalla politica italiana. (Tratto da “L’Europeo” anno 1987).
E siamo ai nostri tempi
Nel novembre 2015 la Guardia di Finanza di Venezia conclude un’indagine su un traffico internazionale di armi e di materiale “dual use” verso la Libia e l’Iran. Ad essere coinvolti nel traffico illecito sono tre italiani e un libico, Mario Di Leva (nome islamico Jafar), Annamaria Fontana, coppia di coniugi italiani di San Giorgio a Cremano, in provincia di Napoli, convertiti all’Islam sciita e “radicalizzati”, Andrea Pardi, amministratore delegato della Società italiana elicotteri ed un libico, Mogamud Alì Shaswish. Risulterebbe indagato in qualità di correo anche un figlio della coppia, anch’egli convertito. Gli indagati si sarebbero serviti di società con sede in Paesi esteri come Ucraina e Tunisia, appoggiandosi anche a personalità del mondo politico, militare e religioso, come testimoniano diverse fotografie che ritraggono la coppia di coniugi in compagnia dell’ex premier iraniano Ahmadinejad.
Il fermo dei quattro è ordinato per un possibile pericolo di fuga emerso “attraverso l’adozione di contromisure di carattere telefonico e atteggiamenti elusivi, utilizzando linguaggi criptici e mezzi tecnologici avanzati, allo stato non intercettabili”. Ma non solo. Per i pm anche “i rapporti con soggetti orbitanti all’estero e provenienti da aree particolarmente delicate anche per la presenza di gruppi armati di matrice terroristica, qui di seguito documentati, appaiono elementi assolutamente concreti che attestano la sussistenza di un reale pericolo di fuga“.
Intercettandoli, gli investigatori scoprono che i due commentano in diretta un rapimento di cittadini italiani in Libia. La sera del 22 luglio 2015, infatti, Mario Di Leva scrive alla moglie: “Hey hanno rapito quattro italiani in Libia”. Annamaria: “Già fatto, notizia vecchia, già sto in contatto”. Annamaria: “Ce li hanno proprio quelli dove noi siamo andati, già sto facendo, già sto operando con molta tranquillità e molta cautela”.
I pm non escludono “una loro possibile attività nel complicato meccanismo di liberazione che solitamente avviene tramite il pagamento di riscatti o la mediazione con altri affari ritenuti di interesse dai miliziani”. Dalle indagini, tra l’altro, emerge che la famiglia Di Leva avesse una “fitta ramificazione di contatti esteri, anche a livello di alti ranghi politici e militari, in particolare con paesi del Medio Oriente come l’Iran ed il Nord Africa come la Libia e la Tunisia”. Frequentazioni certificate anche dalle foto sequestrate dai Finanzieri del Gico di Venezia: nei computer della famiglia Di Leva gli investigatori trovano le istantanee scattate durante un ricevimento esclusivo dove era presente anche l’ex premier iraniano Mahmoud Ahmadinejad. “Si evidenzia che la data di creazione dei files contenenti le fotografie risale al giugno dell’anno 2008, ovvero ad un periodo in cui Mahmoud Ahmadinejad era presidente iraniano in carica”, annotano gli inquirenti, che sequestrano parecchie fotografie della coppia in posa davanti a elicotteri militari sovietici.
Nel 2020 un ulteriore salto di qualità: ‘Ndrangheta ed Hezbollah dirigono traffici di armi e droga
Già nel 2009, nell’ambito di un’inchiesta aperta a Genova, la Guardia di Finanzia entrò nel Matitone – il grattacielo del Comune di Genova – per perquisire gli uffici di alcune società iraniane che avevano sede presso l’edificio (la Ika, la Iritec e la Irasco srl). In particolare, secondo quanto riportava all’epoca il sito Casa della Legalità, il sospetto era quello di un traffico di armi tra Italia e Iran, in particolare per mezzo di una “sorta di impianto realizzato anni fa dalla società Italimpianti, che non sarebbe stato altro che una copertura di rapporti ed attività finalizzate a tale traffico”. Sempre nello stesso articolo, sul quotidiano di Roma “Il Messaggero”, a firma di Giuseppe Scarpa, si segnalava che il presidente del collegio sindacale della Irasco, tale Catalfamo Giacomo, era membro della famiglia Mamone, indicata dalla DIA come una famiglia della ‘ndrangheta, al centro di molteplici inchieste tra cui l’“Operazione Pandora”. Andiamo avanti: un anno dopo (2010), presso il porto di Gioia Tauro veniva sequestrato un carico di 7 tonnellate di esplosivo T4 partito dall’Iran e diretto in Siria.
Ma le relazioni tra ‘Ndrangheta e Iran non sono unicamente legate alle armi. Sia la mafia calabrese che gli iraniani – per mezzo di Hezbollah – sono largamente coinvolti nel traffico di droga, in particolare in America Latina, nella cosiddetta Tri Border Area (tra Paraguay, Argentina e Brasile).
A dieci anni fa risale l’“Operazione Edera”, quando le Forze di Polizia smantellarono un mega traffico di droga internazionale, carichi che viaggiavano tra Anversa, Rotterdam e Gioia Tauro. Come ha recentemente riportato Formiche, in quella occasione si sospettò del diretto contatto tra la ‘ndrangheta e uomini di Hezbollah.
Cinque anni dopo, nel 2015, il pm Antonio Rinaudo guidò l’indagine “Araba Fenice”, inerente un riciclaggio di denaro sporco proveniente dal traffico di droga, collegato direttamente ad Hezbollah. In quella occasione, finirono in manette cinque fratelli, originari del Libano, due dei quali vivevano tra Piemonte e Liguria. L’indagine venne portata avanti in collaborazione con FBI e Europol e riguardava anche alcune società registrate in Italia, ma sotto diretto controllo di Hezbollah. All’epoca l’agenzia Ansa riportò testualmente: “Secondo gli investigatori di Oltreoceano, l’organizzazione terroristica libanese vi avrebbe fatto transitare il denaro proveniente dai grandi traffici di droga dal Sudamerica agli stessi Stati Uniti. Il lavaggio del denaro non poteva essere fatto in quel luogo proprio per l’inserimento delle società nelle blacklist, che ne bloccava di fatto l’attività con gli imprenditori del Paese. La ripulitura delle somme – si parla di una movimentazione di 70 milioni di euro tra entrate e uscite – avveniva in Italia proprio con l’acquisto di auto usate e macchinari industriali e agricoli. I mezzi acquistati venivano poi trasportati ad Anversa, in Belgio, dal cui porto partivano navi destinate ai Paesi dell’Africa centrale”.
Nel 2017, nuovamente, le autorità italiane arrestarono un network criminale responsabile del traffico di droga tra i porti di Gioia Tauro, Livorno, Napoli, Genova e Lamezia Terme, che dall’Italia arrivava fino alla Colombia, grazie ai rapporti con un locale cartello della droga. Anche in quel caso, fu coinvolto un uomo di nazionalità libanese, tale Wael Chanboura (vd. Facebook), residente a Forlì, che recapitava direttamente il denaro per l’acquisto della droga a Bogotà (“Operazione Stammer”). Anche in quel caso, gli analisti sospettarono il diretto coinvolgimento di Hezbollah nel traffico di droga.
Infine, ricordiamo il caso della cosiddetta “droga dell’Isis”, di cui si è parlato su ”Atlantico Quotidiano”. Si tratta di un mega carico di anfetamine Captagon, sequestrato a luglio al Porto di Salerno dagli 007 dell’Agenzia delle Dogane, dalla Guardia di Finanza e dalla Dda di Napoli. In quel caso si parlò di droga dell’Isis, proveniente dalla Siria, ma fu ben chiaro a tutti che i terroristi sunniti non sarebbero stati in grado di produrre una simile massa di anfetamine (oltre 80 milioni di pasticche). Anche in quel frangente, il sospetto cadde su Hezbollah e sul regime siriano: il Captagon, infatti, è la droga più diffusa in Medio Oriente ed Hezbollah ha laboratori clandestini di produzione al confine tra Siria e Libano.
Un delitto inspiegabile?
Nell’ottobre 2020, a Formello, in provincia di Roma, viene ucciso Said Ansari Firouz, imprenditore 68enne figlio di un ex ambasciatore di Teheran a Roma ai tempi dello Shah. Nei suoi uffici di Formello, venne affrontato da un connazionale, il 49 enne Foloty Kave, sul quale pendeva un mandato di arresto per reati concernenti gli stupefacenti, ma in realtà impiegato come spia al soldo di Teheran, con un’ampia rete di conoscenze di trafficanti russi, faccendieri italiani e soprattutto nell’ambito della N’drangheta. La lite era stata cagionata da motivazioni connesse ai vari traffici nei quali i due erano coinvolti. Foloty Kave si suicida poco dopo aver commesso l’omicidio di Firouz.
Per l’Iran, l’imprenditore di Formello, ricopriva il ruolo di fornitore di armamenti, dalle semplici armi portatili, mitragliatori e fucili, ai più sofisticati droni, con introiti annuali pattuiti sino a 5-6 milioni di euro.Ma il guadagno non si è mai realizzato per la prematura scomparsa di Firouz. Era in contatto con tale Safarian Nasab Esmail, suo connazionale indagato dalla Procura di Roma per terrorismo internazionale con il quale, nel 2016, si incontrò a Dubai e a Londra.
Firouz figurava come trait d’union tra il regime degli ayatollah e i rappresentanti di aziende italiane coinvolte nel traffico d’armi verso Teheran, in barba alle sanzioni commutate al regime iraniano. Gli investigatori italiani, venuti a conoscenza delle “ordinazioni” proposte dall’Iran a Firouz, ottennero dalla magistratura inquirente un avviso di garanzia nei suoi confronti e in quelli di altre nove persone coinvolte, per un affare da 300 milioni di euro.
Di Firouz però conta poco la sua appartenenza famigliare, a contare sono le sue relazioni con il regime iraniano. Infatti, lavorava direttamente per i servizi segreti di Teheran (il Vevak), al fine di esportare droni e armi a Teheran, facendo da uomo di collegamento tra i due Paesi e avendo rapporti con personalità del regime indagate per traffico di armamenti (tra gli altri un “mullah” di nome Sarafian Nasab Esamil, incontrato nel 2017 da Firouz a Londra, insieme ad un’altra persona di nazionalità russa).
Gli 007 italiani erano informati sulla trattativa che Firouz, a Roma, stava intessendo tra fabbricanti di prodotti bellici italiani ed esponenti del regime degli ayatollah. Durante i lunghi interrogatori condotti dagli inquirenti, l’iraniano dichiarava: “Voglio preliminarmente precisare che ho conoscenze dentro i servizi – spiega Firouz – in questo contesto (la vendita di armi all’Iran) ho cercato di acquisire informazioni. In particolare avevo rapporti con un maresciallo che periodicamente incontravo e scambiavo informazioni, ho incontrato alcuni suoi superiori che mi hanno ringraziato per la collaborazione”.
A confermare le parole del 68enne, gli investigatori nell’informativa trasmessa al Pm, allegava i tabulati delle chiamate intercorse tra Firouz e il maresciallo dei servizi. Ma oltre agli interrogatori a corroborare le parole dell’ uomo ci sono le intercettazioni che dimostrano una volta di più il legame con gli 007.
Quelle più rilevanti, relative a Firouz, rivelano che dei “gruppi tra di loro (servizi) stanno litigando”. L’uomo ritiene di essere finito in mezzo ad un litigio tra due anime dei servizi in conflitto tra loro. E aggiunge: “Io sono un amico loro, e ho lavorato per loro punto e basta e ho fatto quello che loro mi hanno chiesto”. Infine la minaccia: “Io per ste cose vado a finire sui giornali, io vado sui giornali, gliel’ho già detto a loro”. È stato lo stesso Firouz a spiegarlo agli inquirenti quando è stato interrogato il 7 maggio 2020, dopo che gli investigatori avevano scoperto il negoziato in atto all’ hotel degli Aranci ai Parioli. Ma c’è di più, perché a conferma della versione offerta dall’iraniano agli inquirenti vi sono alcune chiamate partite dal suo cellulare ad un numero intestato alla presidenza del consiglio dei ministri il 22 novembre del 2016, proprio nei giorni in cui avvenivano gli incontri con i delegati di Teheran.
È deluso Sayd Ansary Firouz. Il blocco dei suoi conti correnti e l’ inizio dell’inchiesta per traffico internazionale d’armi con il regime degli ayatollah ha, per lui, una sua genesi precisa. Il giorno non lo ricorda ma ha ben impresso l’ episodio che segna la svolta negativa. Nella trattativa per la vendita dei droni militari, in cui accompagna la delegazione iraniana, si accorge che al tavolo dei venditori siede uno 007 che ritiene essere rivale al gruppo di agenti dei servizi italiani con cui lui lavora.
Qui si riporta, in estrema sintesi, la conversazione che Firouz intrattiene con un dirigente della banca dove l’iraniano ha un conto che gli viene congelato. Il 68enne spiega tutto al bancario, che sembra essere ben informato del rapporto che il suo cliente ha con l’intelligence. Questo ciò che gli dice il 31 gennaio 2020: “Allora ti spiego come sono andate le cose. Loro non lo possono dire ufficialmente, ero una persona a cui hanno chiesto dei favori. Stiamo parlando di servizi. Allora sull’Iran hanno usato una rete per delle operazioni che purtroppo non posso rivelare, è lì il problema. In una di queste riunioni in cui facevamo un verbale delle operazioni fatte il giorno stesso (con gli 007) c’ era un altro gruppo (dei servizi italiani). E allora cosa è successo nell’altro gruppo c’era una persona, quando è finita la riunione sono andato a dire guarda che dall’ altra parte (quando aveva accompagnato la delegazione iraniana a vendere i droni) c’ era uno di voi lì dentro, dice ah no quello fa parte dell’altro gruppo freghiamocene”.
E, di seguito: “Che cosa è successo? Questo gruppo dove io lavoravo ha avuto un grande successo di tutte le operazioni, perché c’ ero io e c’ era un po’ di conflitto tra di loro”. A questo punto cosa sarebbe accaduto secondo il 68enne: l’ altro gruppo sarebbe “andato da questo giudice a dire guarda c’è Firouz che sta in questo gruppo, allora il giudice ha aperto l’ inchiesta”.
A questo punto il gruppo di agenti vicino a Firouz, secondo la sua versione, si sarebbe mosso per spiegare in procura che lui era infiltrato e non complice di una compravendita di armi a favore di Teheran. Tuttavia il giudice avrebbe proseguito nell’ inchiesta. “Dei miei amici sono andati, dato che il giudice non molla facciamo questa indagine e io fornisco il mio parere che Firouz non ha un ruolo, che era un persona vostra, fate una relazione”. L’uomo ritiene, infatti, di aver “dato un aiuto al governo italiano, punto e basta!”, fornendo informazioni riservate all’ intelligence. “Io (gli 007) li ho accompagnati in questa riunione dei droni, loro mi dicevano dove andare”. Tuttavia, spiega sempre l’ iraniano, adesso sono loro che mi dicono “non possiamo andare contro questo giudice, a maggio (giorno in cui è fissato l’ interrogatorio) viene chiusa” l’ inchiesta con l’ archiviazione.
Ma in quella data non solo in Procura viene deciso di proseguire con l’indagine, ma si stabilisce anche di formulare un’accusa definitiva. L’ avviso di garanzia verrà consegnato al 68enne pochi giorni prima del suo assassinio. Ma a gennaio lui è ancora convinto di scampare all’ inchiesta: “Non ci sono condanne! A maggio mi condannassero a morte ma io non fatto ho nulla”. Said Ansary Firouz viene ucciso nell’ottobre 2020 a Formello.
Nel maggio 2022 sulla scorta delle risultanze del traffico di armi made in Italy verso l’Iran, vengono indagati dalla Procura di Roma per associazione con finalità di terrorismo, Mohamad Hamed Adibpour, Mehran Aalipour Birgani e Esamil Nasab Safarian che risultano, però, irreperibili.
Ora, oltre ad emergere maggiori particolari sulle società italiane coinvolte nel traffico di armi e sotto inchiesta delle Forze di Polizia (si parla della Mateba Italia srl, della Fonderia Metalli Dquattro srl e della Flytop, (fonte Il Messaggero), emergono anche le relazioni che Firouz aveva con uomini della ‘ndrangheta. In particolare, un affarista arrestato a Dubai nel 2017 per riciclaggio di denaro, collegato al boss Giuseppe Crea (a capo di una ‘ndrina originaria di Rizzoni).
Non è la prima volta che emergono notizie relative ai pericolosi rapporti che l’Iran ha con uomini della criminalità organizzata calabrese.
Ulteriori indagini che completano l’inquietante quadro circa i traffici in cui l’Italia svolge un ruolo di prim’ordine. L’ex dirigente della Beretta Alessandro Bon che, insieme ad altre otto persone, è accusato di aver venduto all’Iran armi “dual use”, destinate sia all’uso militare che a quello civile.
Con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata al traffico in Iran di materiali di armamento “dual use”, e cioé che “possono essere destinati tanto ad uso militare che ad uso civile”, la Procura di Milano ha chiuso le indagini, in vista della richiesta di rinvio a giudizio, nei confronti di nove persone tra cui il giornalista iraniano Nejad Hamid Masoumi, il suo connazionale Ali Damirchiloo e, appunto, l’ex dirigente della Beretta Alessandro Bon.
L’avviso di conclusione dell’inchiesta, notificato qualche tempo fa, riguarda anche la compagna e un socio di Bon, Arnaldo La Scala, un avvocato torinese, Raffaele Rossi Patriarca, Guglielmo Savi, titolare di una società di telecomunicazioni, e altri due imputati iraniani.
All’epoca finirono in cella i primi sette (meno di due mesi dopo furono posti ai domiciliari e ora sono liberi) su richiesta dell’allora procuratore aggiunto Armando Spataro, mentre gli ultimi due, anche loro destinatari di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, risultano tuttora latitanti.
Secondo l’ipotesi degli inquirenti Masoumi, giornalista allora accreditato presso la sala stampa estera di Roma per la Tv di Stato iraniana ‘Irib’ (il cui arresto creò un caso diplomatico) e i suoi coimputati connazionali, sarebbero stati, almeno dal 2007, i finali acquirenti dei materiali nell’interesse del governo iraniano” dal gruppo di indagati italiani.
L'”illegale esportazione” verso l’Iran, come si legge nel capo di imputazione, sarebbe avvenuta attraverso giro di ‘triangolazioni internazionali’, tra Milano, le province di Monza, Brescia, Varese, Piacenza, Ginevra, Bucarest, Londra e Dubai da dove partivano le spedizioni per l’Iran attraverso l’Armenia, in modo da aggirare l’embargo per la vendita di armi a Teheran.
Il traffico avrebbe convogliato in Iran puntatori laser, giubbotti e autorespiratori, paracaduti ed elicotteri materiale di cui inizialmente si sospettava fosse per uso militare e ora, in seguito a una serie di consulenze e accertamenti anche complicati, catalogato come “dual use” ma di cui comunque è ed era vietata l’esportazione. Nell’indagine era spuntato anche il nome dell’ex assessore lombardo Pier Gianni Prosperini. Ora alcuni degli indagati hanno chiesto di essere interrogati dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli attuale titolare del procedimento.
Il Vevak infiltrato in Italia
Quindi, i servizi segreti iraniani risultano da sempre implicati nei traffici anche in Lombardia e, l’articolo che segue ripercorre i tratti salienti dell’indagine:
“La Guardia di Finanza il 3 marzo 2010, aveva annunciato l’arresto di nove persone, tra cui quattro presunti membri dei servizi segreti iraniani, accusate di un traffico di armi verso l’Iran. Gli arresti sono avvenuti in diverse città, tra cui Milano, Torino e Roma, dice la Gdf. Cinque degli arrestati sono italiani, uno dei quali residente in Svizzera. Uno degli italiani, dicono fonti investigative, è un avvocato di Torino che aveva una società di import-export di armi.«Durante la notte, il Nucleo di Polizia Tributaria di Milano… ha dato esecuzione (nelle province di Milano, Torino, Roma, Piacenza, Treviso, Varese, Brescia, Verbania, Viterbo e Padova) a 9 ordinanze di custodia cautelare in carcere nei confronti di altrettanti soggetti ritenuti responsabili del reato di associazione a delinquere finalizzata all’illecita esportazione verso l’Iran, in violazione del vigente embargo internazionale, di armi e sistemi militari di armamento, con l’aggravante della transnazionalità», dice un comunicato del Comando provinciale di Milano delle Fiamme Gialle. «I soggetti iraniani sono ritenuti essere appartenenti ai servizi segreti di quel Paese». In precedenza, fonti investigative avevano detto che due degli iraniani risultavano latitanti. Il comunicato della Gdf dice che due degli iraniani sono residenti a Torino e a Roma, ma non specifica dove risiedano gli altri due.Le indagini, dice la Finanza, sono iniziate nel giugno del 2009 e avrebbero permesso «di svelare un’organizzazione criminale che è riuscita ad esportare in Iran materiale bellico, anche attraverso triangolazioni con Paesi terzi». Secondo i militari, le indagini – condotte anche grazie alla collaborazione delle autorità di Regno Unito, Svizzera e Romania – hanno consentito di interrompere “forniture di apparecchi ottici di precisione (1.000), di produzione tedesca, e di giubbotti autorespiratori da immersione (120), destinati ad armamenti militari”. Ma anche l’esportazione di proiettili traccianti e di esplosivi”.
Roma crocevia di spie
Ma è Roma il centro del crocevia di spie. Tra luglio e agosto 2020, su Formiche.net si narrava la storia di Danial Kassrae, un ventinovenne iraniano con cittadinanza italiana espulso dall’Albania con l’accusa di spionaggio per conto dell’intelligence di Teheran contro la Resistenza in esilio. Ora si troverebbe nel nostro Paese. Addirittura, secondo il Consiglio nazionale della resistenza iraniana, Kassrae sarebbe stato “precedentemente impiegato come reporter dalla televisione statale iraniana Press TV a Roma” e sarebbe stato lo stesso Mois a inviarlo dall’Italia in Albania “contemporaneamente al trasferimento in Albania degli ultimi gruppi di membri dissidenti dal regime, del Mek (Mojaheddin e-Khalq) dall’Iraq”.
In questi anni, infatti, se è vero che, ufficiosamente, il regime iraniano ha fallito nello sviluppare le relazioni ufficiali economico-politiche con l’Italia (grazie alle sanzioni Usa), per altro verso ha fatto del nostro Paese un crocevia per i suoi traffici illegali. Solo negli ultimi mesi, una serie di fatti, anche riportati dalla stampa, ha rivelato tutta la pericolosità del regime di Teheran per l’Italia e l’Europa. Il primo, una denuncia del responsabile anti-terrorismo del Dipartimento di Stato americano, ambasciatore Nathan Sales. Come si ricorderà – dopo le esplosioni di Beirut – Sales ha denunciato la presenza di e armi di Hezbollah anche in territorio europeo. Tra i Paesi menzionati, anche l’Italia.
La politica del Copasiran
Ma la vicenda che più ha destato scalpore è quella relativa ai rapporti intercorsi del ministro dello Sviluppo economico e del Made in Italy Urso con la già citata SEI srl, la Società italiana elicotteri coinvolta nell’operazione della GdF del 2015.
Adolfo Urso, nel 2021, presiedeva il Copasir, l’organo di vigilanza sull’operato dei servizi di sicurezza italiani, ma era in rapporti con un fornitore di velivoli in Iran e Libia, condannato proprio grazie all’operato dei nostri Servizi.
Pezzi di ricambio di elicotteri. Giubbotti antiproiettile. Aerei adattabili all’uso militare. Incontri con alti funzionari della guida suprema della Repubblica Islamica dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei. E un contratto di collaborazione con una società coinvolta in un’inchiesta per traffico di materiale «dual use», dal doppio uso civile e militare, esportabile solo con specifiche autorizzazioni ministeriali. Sono i contenuti, che il settimanale “L’Espresso” pubblicò in esclusiva, con alcune lettere commerciali e contratti riconducibili alla Italy world services, società di cui è stato legale rappresentante fino al giugno del 2018 il senatore di Fratelli d’Italia Adolfo Urso. Urso, che presiedeva anche la fondazione Farefuturo fondata da Gianfranco Fini, ha avuto importanti incarichi di governo con Berlusconi: viceministro alle Attività produttive (2001-2006) e sottosegretario allo Sviluppo economico (2008-2010) con delega al commercio estero, l’autorità che aveva il potere di rilasciare le autorizzazioni all’esportazione di beni e tecnologie «dual use». I documenti su Urso, all’epoca imprenditore senza cariche politiche, sono stati scoperti nel corso di una perquisizione effettuata nel 2015 su ordine della procura di Napoli nella sede di un’altra azienda, la Società italiana elicotteri, che in quei mesi era coinvolta in una complessa indagine su un presunto traffico d’armi verso l’Iran e la Libia, paesi sottoposti a embargo e sanzioni. Inchiesta a cui avevano contribuito per l’attività informativa anche le agenzie di intelligence italiane, Aise e Aisi.
Tra i file recuperati dagli hard disk della Italiana elicotteri la Guardia di finanza aveva trovato anche la corrispondenza con la società di Urso, ritenuta di interesse investigativo, e il fascicolo era stato trasmesso per competenza a Roma. Interrogato nel marzo del 2017, Urso ha spiegato di non aver mai dato seguito a quelle richieste e proposte commerciali, e alla fine non è stato accusato di alcun reato: dopo alcuni accertamenti lo stralcio romano dell’inchiesta è stato archiviato.
Ma la documentazione sequestrata all’epoca svela fatti nuovi, privi di rilevanza penale ma con un sicuro risvolto politico: finora infatti nessuno sapeva dei pregressi rapporti fra Urso e l’imprenditore Andrea Pardi, l’Amministratore delegato della Società Italiana elicotteri che nel 2018 ha patteggiato a Napoli una pena di 1 anno e 11 mesi per aver cercato di esportare illecitamente velivoli «dual use» in Libia.
A presentarlo all’esponente di FdI sarebbe stato un collega di partito. Proprio nei mesi del 2015 in cui Urso avviava la sua collaborazione con lui, Pardi era nel mirino dell’antiterrorismo di Milano per i suoi contatti con un gruppo di iraniani indagati per traffico d’armi, ritenuti vicini ai Pasdaran e monitorati, oltre che dalle autorità italiane, anche dal Dipartimento per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti e dall’Fbi. A questi soggetti, noti come «gruppo Hashemi», Pardi avrebbe tentato di vendere elicotteri Bell 412 e Black Hawk dal duplice impiego civile e militare, ricevendo nel febbraio del 2015 il loro capo, Reza Hashemi, nella sede della Italiana elicotteri, pedinato da agenti statunitensi dell’Homeland security investigations.
Hashemi, secondo notizie di intelligence riportate ai magistrati di Milano dal comando generale della Gdf, avrebbe fatto parte della Forza Quds, un corpo d’élite delle Guardie rivoluzionarie islamiche incaricato di compiere operazioni all’estero, comandato fin dal 1988 da Qassem Soleimani, il generale iraniano eliminato il 3 gennaio 2020 in un raid statunitense con un drone all’aeroporto di Baghdad. Considerata dagli Usa un’organizzazione terroristica, Quds sarebbe un canale di rifornimento di armi per «gruppi estremisti, tra cui talebani, Hezbollah libanesi, Hamas, Jihad islamica palestinese, e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina».
La politica italiana coinvolta nei traffici?
Relazioni certamente imbarazzanti per il senatore di FdI in ragione dell’importante ruolo di presidente del Copasir, con la facoltà di audire i vertici delle agenzie e di accedere a informazioni e documenti coperti da segreto di Stato. Organismo di cui il senatore Urso è stato membro e vicepresidente fin dall’inizio della legislatura, dopo aver lasciato la gestione della ditta di famiglia al figlio Pietro, continuando però a detenere il 31 per cento delle quote. La situazione appare ancora più delicata perché nelle complesse indagini della Procura partenopea nei confronti di Pardi e dei coniugi Mario Di Leva e Anna Maria Fontana, questi ultimi risultati in contatto con «le massime cariche iraniane» e fotografati addirittura con l’allora presidente Mahmoud Ahmadinejad, erano stati decisivi proprio «l’eccezionale apporto informativo e i documenti rinvenuti dai Servizi di informazione e sicurezza nazionali», come sottolineano i pm di Napoli Catello Maresca e Maurizio Giordano nel provvedimento di fermo del 30 gennaio 2017.
Grazie alla collaborazione dell’intelligence italiana con gli investigatori era emerso che si trattava di «soggetti già conosciuti per la specifica attività di compravendita di elicotteri e materiali dual use». E che Andrea Pardi avrebbe avuto, accanto all’«operatività formale» delle sue società in Italia, una «impresa parallela, fatta di società estere e di conti offshore, con i quali avviene la più cospicua parte delle transazioni». Informazioni fornite dagli stessi Servizi che Urso controllava.
A suscitare l’interesse degli investigatori per la Italy world services di Urso era stata una richiesta proveniente da Teheran il 28 febbraio 2015 e relativa, secondo la Gdf, a «pezzi di ricambio di elicotteri» a cui era seguita, il successivo 23 marzo, una proposta della Società italiana elicotteri per l’importo complessivo di 2 milioni di euro. Altre e-mail, scambiate nelle settimane e nei mesi seguenti con vari interlocutori, riguardavano poi forniture urgenti di «turbine», «giubbotti Iso 14876 antiproiettile e antitaglio», «aerei DHC-6 serie 400 Twin Otter», disponibili anche nella «versione militare/paramilitare chiamata “Guardian” per fare vari tipi di missione (Sar, pattugliamento costiero, border patrol, etc)». Si tratta di richieste rimaste spesso senza riscontro da parte di Urso. Sentito come persona informata sui fatti il 31 marzo 2017, Urso ha dichiarato di non aver «mai trattato materiali dual use o militari» e che alle email «non era seguito nulla». Di molte lettere mostrate dai militari nel corso dell’interrogatorio ha detto di non ricordare, ma ha assicurato di «non aver mai concluso alcun tipo di attività» con Pardi. Con il quale però aveva siglato, il 17 giugno 2015, un contratto in qualità di consulente con un incarico importante, destinato a rinnovarsi automaticamente ogni anno: sviluppare la rete commerciale della società di Pardi «con esclusiva per gli stati dell’Iran e del Sud Africa», in cambio del «5 per cento sul fatturato totale» della Italiana elicotteri. Un contratto che avrebbe voluto firmare lui stesso «per avere un accordo scritto che metta in chiaro le condizioni di collaborazione», come ha spiegato ai finanzieri del Gico. Urso sarebbe anche stato invitato nel settembre 2015 a Teheran da Mehdi Karimi, vicepresidente del Segretariato dello sviluppo della scienza e della tecnologia nei Paesi islamici, un ufficio, come spiega lo stesso Urso in una lettera di precisazioni alla Gdf, «collocato presso la amministrazione della Guida suprema creato di recente proprio per cogliere opportunità successive alla rimozione dell’embargo». In quell’occasione, i funzionari dell’ayatollah Khamenei gli avrebbero proposto addirittura, prosegue l’esponente di FdI, un accordo bilaterale «tra l’ufficio e la mia società che declinai».
Contattato da L’Espresso, il senatore Urso ha sostenuto di non essere «mai stato consulente di Pardi» e di non aver «mai concluso con questo signore affari di sorta né personalmente né attraverso la mia società». Quindi ha precisato di “non sapere nulla” delle inchieste giudiziarie che hanno riguardato Andrea Pardi, sottolineando che l’imprenditore all’epoca «aveva frequentazioni con ambienti apicali del settore in cui operava». Rispetto al contributo fornito dall’intelligence italiana alle indagini sui traffici di materiale «dual use» verso Iran e Libia, che hanno coinvolto soggetti con cui era in rapporti professionali prima di essere rieletto parlamentare, per l’allora presidente del Copasir non ci sarebbe stata «alcuna incompatibilità» con le sue funzioni. Sul punto Urso scrisse che «non sussiste alcun conflitto di interessi tra i miei attuali compiti istituzionali e le attività che ho svolto da privato cittadino prima di entrare in Parlamento», e che in seguito all’elezione in Senato nel 2018 «ho assolto a tutti gli obblighi di trasparenza previsti dalla legge, così come ho fatto nel 2010 quando mi sono dimesso dai miei incarichi di governo rispettando con rigore e puntualità la normativa sul conflitto di interessi». Infine, circa la possibilità di tornare a fare l’imprenditore che fornisce consulenze per le imprese in Iran e in altri paesi extra Ue, una volta concluso il suo ruolo di presidente del Copasir, il senatore di FdI ha escluso qualsiasi problema di opportunità: «Tutto ciò di cui ho conoscenza in ragione delle mie funzioni è sottoposto al segreto più rigoroso al quale mi sono attenuto sinora e continuerò ad attenermi».
Sarà solo un caso, ma la Italy world services, società di cui è stato legale rappresentante fino al giugno del 2018, ha visto crollare il suo fatturato estero dopo la chiusura della sede nello Stato islamico. Lui: “tutto regolare”.
Inoltre, una mera ricerca sul web ha fatto emergere che la IWS è ancora attiva con sedi a Roma, L’Aquila e in Bulgaria, pur essendo oggi intestata al figlio di Urso, Pietro.