In settimana si è molto discusso sulle presunte agevolazioni e spinte ad agire che avrebbero condotto Cherif Chekatt, l’attentatore di Strasburgo, ad entrare in azione nel tentativo di distogliere l’attenzione dalle proteste in atto da settimane del movimento del Gilet jaunes. Secondo queste teorie il 29enne, martedì mattina, sarebbe stato avvisato dell’imminenza della perquisizione con conseguente arresto che la Police nationale avrebbero dovuto eseguire nei suoi confronti. Di conseguenza, preso dal panico e armatosi di coltello e pistola, avrebbe iniziato a percorrere le vie del centro, animate dai mercatini di Natale, colpendo a caso chi si frapponeva al suo cammino. Nel corso dell’azione avrebbe affrontato anche una pattuglia di militari dai quali sarebbe stato ferito, prima di sequestrare un taxi con relativo autista, al quale avrebbe risparmiato la vita in virtù della fede islamica professata dall’ignaro tassista. L’operazione di rastrellamento posta in essere dalle forze di polizia, avrebbe poi ridotto considerevolmente le possibilità di fuga del Chekatt che, stremato, avrebbe trovato rifugio in un magazzino non lontano dal suo domicilio. Una sua “fugace apparizione in strada”, poi, avrebbe permesso il riconoscimento da parte di una donna che ha avvisato la polizia. Gli agenti subito giunti sul posto, minacciata dal fuggitivo ancora armato, lo avrebbe definitivamente neutralizzato.
A fronte di questo scarno resoconto, molti hanno sollevato dubbi sull’operato delle forze di sicurezza
In primo luogo la quasi contemporaneità dell’attacco con le proteste d’Oltralpe contro le politiche del governo e sulla leadership di Macron. Ma le cellule jihadiste, e soprattutto i lupi solitari, si attivano in maniera del tutto autonoma e la crescente instabilità che si è venuta a creare in Europa, in particolare in Francia, ha creato le condizioni per muoversi e agire consapevoli della temporanea distrazione di ingenti forze di polizia concentrate ad arginare le proteste, piuttosto che a rinforzare i dispositivi di sicurezza in prossimità delle prossime festività.
La mancata cattura di Cherif Chekatt
La seconda critica mossa agli operatori di polizia intervenuti dopo l’individuazione del sospetto è quella della mancata cattura di Chekatt, rimasto ucciso, quindi non utile a smascherare l’eventuale rete di appoggio di cui fruiva, palesando una volontà quasi omicidiaria da parte degli agenti operanti. Tale tesi è in forte contrasto non solo con il profilo dello stragista franco-maghrebino, autoradicalizzatosi e vicino ad ambienti islamisti ma anche e (forse soprattutto), con le dichiarazioni dei genitori del giovane, fermati dagli inquirenti e successivamente rilasciati. Questi, infatti, hanno riferito alle autorità un radicale cambiamento del 29enne che ultimamente aveva palesato un suo deciso avvicinamento all’ideologica jihadista propagandata dallo Stato islamico.
Forse Chekatt era parte di una cellula pronta ad entrare in azione
In seno ai gruppi islamisti, gli indottrinatori inculcano agli adepti i valori di coraggio, determinazione, disprezzo del nemico (gli infedeli) e, appunto, la disponibilità al martirio, come nel caso di Chekatt. L’attentatore di Strasburgo era probabilmente parte di una cellula pronta a entrare in azione (esplosivi e armi sono stati rinvenuti in uno dei domicili dell’uomo) che, vistosi scoperto, ha deciso di entrare in azione in solitaria certo di sacrificare la vita pur di compiere la sua missione e di non cadere prigioniero in balia del nemico. Il terrorista, se catturato, ben lungi dal divulgare al nemico i nomi dei complici, dei luoghi di ritrovo o dei depositi di armi, non avrebbe fatto altro che andare ad ingrossare le fila dell’esercito dei detenuti che, in attesa della “fine pena”, vengono reindottrinati all’interno dei circuiti carcerari pronti, una volta liberi, a ritornare in azione.
In Francia ci sono 15.000 segnalati con fiche “S”
In Francia, i circa 15.000 segnalati con fiche “S”, rappresentano una massa di esaltati completamente fuori controllo, e le autorità d’Oltralpe lo sanno bene. Periodicamente alcuni di loro decidono di entrare in azione spinti da fattori emulativi, o da quelli psicologici indipendenti, ma spinti dal medesimo fervore ideologico. Il tanto criticato Stato di Israele che da sempre vive in stato di assedio, affronta la sfida terrorista con una determinazione a noi sconosciuta e rappresenta l’ultimo baluardo contro la crescita esponenziale del fenomeno del terrorismo di matrice islamista, adeguando i propri sistemi di protezione in proporzione alle minacce cui fare fronte, ricorrendo, alla bisogna, anche a metodi “non ortodossi”.
L’Italia e lo “stato di diritto”
Da parte nostra cerchiamo certamente di opporci a una guerra, che rifiutiamo persino a parole di ammettere esista, e che però da tempo ci è stata dichiarata, opponendo uno “stato di diritto” (mai però del dovere), distorte applicazioni della “presunzione di innocenza” (anche in casi in cui dubbi sulla responsabilità non ne possano esistere), teorici, quanto improbabili, percorsi indirizzati alla “riabilitazione del reo” (con il rischio, a generosamente definirlo così, di indottrinamento in carcere), affermando di voler salvaguardare i “valori della società occidentale” (quelli ai quali gli islamisti, e gli islamici in generale, non intendono adeguarsi), sempre più messi in pericolo da ipocrite affermazioni di rispetto verso le altre culture, tradizioni e sentimenti, ma con il celato intento di far dissolvere piano piano attraverso un insinuante quanto devastante programma, le nostre. Il tutto condito attraverso lo strumentale utilizzo di un esasperato buonismo, che si pretenderebbe però di imporre agli altri, e certo non di praticare in prima persona, spinto da entità e motivazioni sulle quali sarebbe ora di far chiarezza. Quasi a corollario, e supporto di questa situazione disastrosa giungono poi, ormai quasi quotidianamente, provvedimenti di autorità giudiziarie, non solo nostrane, in favore di delinquenti abituali, se non terroristi conclamati, presi, come si diceva una volta “con le mani nel sacco”, che hanno ormai determinato un disorientamento nella popolazione che sta perdendo ogni punto di riferimento. Non vogliamo gettare la croce addosso a nessuna categoria, e men che mai alla magistratura, ma che all’interno vi siano alcuni, che speriamo esser pochi, che diciamo “remano contro” al comune sentire, altri che perseguono propri obiettivi personali, oltre a tanti, ed è questa la parte forse più dannosa perché in buona fede che, facendo proprie idee, magari teoricamente anche meritevoli, applicano però malamente le norme, per lo meno rispetto al comune sentire della gente, sono dati di fatto, difficilmente smentibili.
Come vogliamo leggere il caso del processo che fu intentato contro i “rapitori”, dell’imam Abu Omar?
Tutti dovremmo quindi riflettere, ma seriamente, su quel che sta accadendo sotto i nostri occhi. È ingiusto, ma soprattutto è pericoloso per la collettività, il messaggio che al di là degli intenti del suo autore, si divulga il definire, come è accaduto poco tempo fa, come un fatto “di particolare tenuità”, lo sputare in faccia a un rappresentante dello Stato in divisa. È pericoloso il messaggio che la gente trae da questi esempi. Andando indietro nel tempo, come vogliamo leggere il caso del processo che fu intentato contro i “rapitori” (così furono definiti), dell’imam Abu Omar? Volontà di impedire di contrastare con la dovuta fermezza il dilagare della barbarie? Asettica applicazione della Legge? Quale è il messaggio che la gente comune ha tratto? Al di là del merito giuridico, che non compete a noi valutare, un dato è rimasto indiscutibile: le conseguenze di quel procedimento hanno provocato il collasso di un sistema di difesa, magari in certe sue espressioni, poco ortodosso, ma sicuramente funzionale per la conoscenza e il contrasto del fenomeno del terrorismo islamista e delle sue reti, che per anni ha garantito l’immunità del nostro Paese da atti ostili da parte di gruppi jihadisti operanti sul territorio nazionale, garantendo altresì un copioso scambio informativo con i paesi amici. Se poi a questo si aggiungono le dichiarazioni di alcuni magistrati che hanno persino negato l’evidenza della presenza di terroristi a bordo dei barconi utilizzati per l’immigrazione clandestina sulle coste italiane, documentati da indagini svolte da varie procure del sud Italia, sembra lecito domandarsi se davvero sia possibile fare fronte comune a un rischio mortale al quale tutti rimaniamo esposti.