Il covid non ferma la jihad in Occidente. Il ministro della Difesa tunisino, Emad Al-Hazqi, ha divulgato ieri un comunicato stampa per sottolineare che il ritmo dei tentativi di infiltrazione terroristica sul loro territorio si è intensificato nell’ultimo periodo e che il conflitto in corso in Libia ha favorito l’afflusso di miliziani jihadisti dai teatri di guerra Medio orientali e il loro continuo approvvigionamento di armamenti. La dichiarazione è da porre in relazione con la notizia di venerdì sera, secondo la quale l’intera struttura medica e paramedica del Covid Center 19 di Monastir ha presentato le dimissioni di massa dopo aver ospitato 3 terroristi provenienti dalla Libia e consegnati dalla sicurezza tunisina, affetti dal virus. Inoltre, sempre nella giornata di ieri, si è appreso che a Sfax la Dogana e la Guardia nazionale hanno intercettato un battello con 128 persone a bordo, di differenti nazionalità, sulle quali sono in corso accertamenti per individuare eventuali infiltrazioni di terroristi. Comunicati e notizie che altro non fanno che ribadire che le rotte dell’immigrazione clandestina costituiscono un itinerario privilegiato per gli jihadisti in transito verso l’Europa, ai quali il nostro Paese si presta come “utile idiota” favorendone l’afflusso indiscriminato, incontrollato e, aggiungiamo, irresponsabile.
I jihadisti, accorsi a sostegno delle entità già da tempo operanti in Libia, rappresentano una vera spina nel fianco per la sicurezza del Maghreb e non solo. Il circuito che li guida è iniziato dalla “tazkia”, ovvero la raccomandazione ottenuta dal reclutatore di turno per poter essere incanalati verso le terre della jihad, siano esse in Medio Oriente che in qualsiasi altro punto del Pianeta.
Nel caso della Siria, l’appellativo di “impolverato”, utilizzato in codice per indicare un reduce da quel teatro di combattimenti, è indicativo della pericolosità dei miliziani attualmente presenti in Libia e distinti dagli altri volontari per coraggio, determinazione e ferocia. Essi rappresentano la punta di diamante che utilizza il “circuito” ideato dalla leadership del network dello Stato Islamico per giungere a colpire l’Occidente utilizzando un percorso, in verità abbastanza semplice, che va dall’utilizzo delle rotte di immigrazione clandestina, all’assistenza all’arrivo fornita “inconsciamente” dai Paesi europei, alla fornitura di qualsivoglia documento di identificazione (ovviamente con dati anagrafici falsati) all’avvio di percorsi in clandestinità attraverso i quali le cellule, anche se ripetutamente smantellate dagli apparati di sicurezza dei Paesi ospitanti, riescono a ricomporsi allo scopo di favorire ulteriori attacchi o di condurne dei propri.
Ma per comprendere quali siano cause e motivazioni di una tale movimentazione, occorre analizzare il fenomeno, come già in passato abbiamo proposto, partendo dalla disfatta militare del Daesh nel teatro siro-irakeno.
Il Centro anti-terrorismo delle Nazioni Unite, già nel 2017 aveva evidenziato che i foreign fighters accorsi in Siria e Iraq per la Jihad, provenivano per lo più da contesti di emarginazione sociale e non sulla spinta di motivazioni ideologiche o pseudo-religiose. La sconfitta del Califfato ha avuto come diretta conseguenza la frammentazione di un’unica entità terroristica in decine di micro-cellule sparse nei Paesi confinanti e per lo più intenzionati a cercare vendetta contro l’odiato Occidente.
Nella dottrina dell’antiterrorismo viene spesso evidenziato come la sopravvivenza dei grandi network del terrore sia legata a diversi ed essenziali fattori, quali la continuità dell’azione di propaganda attraverso il web e i mass media, il “reclutamento dal basso” indirizzato alle fasce più deboli dei giovani, e la continuità degli attacchi anche se condotti con un basso grado d’intensità
Proprio quest’ultima opzione è stata indicata nei proclami già diffusi nel maggio 2016 dal defunto Abu Muhammad al-Adnani, all’epoca portavoce del Daesh che promulgava: “L’azione più piccola che fai nel loro cuore è migliore e più duratura per noi di quella che faresti se tu fossi con noi” e “Se uno di voi sperasse di raggiungere lo Stato Islamico, vorremmo essere al vostro posto per punire i crociati giorno e notte”, con opportuno riferimento ai jihadisti impossibilitati a compiere la Hijra e, quindi, spinti a compiere le loro azioni nei Paesi di residenza.
Ma il successo dello Stato Islamico nell’attività di arruolamento attraverso i social media ha probabilmente rivoluzionato fenomeno del terrorismo contemporaneo. Le “suppliche organizzative” rivolte a questo tipo di violenza da attore solitario sono state ribadite, più recentemente, all’inizio del 2020 dal defunto esponente di al-Qaeda nella penisola arabica, Qassim al-Rimi.
Rimi, infatti, aveva invitato i musulmani occidentali, incluso il “caro delegato laggiù, caro studente, caro giornalista, caro dottore, caro ingegnere, caro commerciante, caro lavoratore, caro arabo e non arabo”, a mettersi in azione per attaccare l’Occidente con qualsiasi mezzo a disposizione.
Un’ideologia non certo nuova per le reti jihadiste, opportunamente anticipata da Samuel P. Huntington nel 1996 nella sua opera “Lo scontro delle civiltà”, ove viene sottolineato come “l’espansione dell’Occidente sia terminata ed è iniziata quella della rivolta contro l’Occidente”.
In “Christianity and Islam, pubblicato su “International Affairs” nel gennaio 1991, anche Edward Mortimer ebbe modo di evidenziare come “la religione penetrerà probabilmente in misura sempre maggiore negli affari internazionali” e nelle relative dispute che si tramuteranno da ideologiche a culturali e/o religiose tra le varie civiltà.
Il percorso di radicalizzazione messo a punto circa due decenni or sono da un ristretto gruppo di autoproclamati imam, sotto l’egida di Gulbuddīn Hekmatyār, noto tra l’altro come mentore di numerosi islamisti tra i quali Oussama bin Laden, Recep Tayyip Erdoğan e Rashid Ghannushi leader del partito tunisino Ennahda, è diventato una sorta di “bibbia” per i seguaci della jihad, così come gli scritti di Abu Musab al-Suri, alias di Mustafa bin Abd al-Qadir Setmariam Nasar, membro di Al Qaeda noto per una sua pubblicazione di 1600 pagine e titolata “The Global Islamic Resistance Call”.
La disponibilità delle istruzioni per la jihad, diffuse a livello globale dai vari social media, individua l’iter formativo in quattro fasi fondamentali,che debbono necessariamente essere compiute dall’imam nei confronti dei soggetti da rendere “operativi” al servizio della jihad: individuazione – incanalamento – istruzione – induzione.
E’ un fatto ben noto e conclamato che nelle centinaia di moschee semi-clandestine, mascherate da centri di cultura islamica, gli imam ricoprano un ruolo focale per le comunità di immigrati musulmani che si riversano non solo all’interno dei locali, ma anche e soprattutto, nelle loro immediate vicinanze per incontri periodici con “loschi figuri”. Le figure quasi ascetiche di questi individui, seppur privi di qualsiasi nomina ufficiale, si pongono al di sopra degli altri fedeli per la perfetta conoscenza del Corano, della Sunna e degli Hadith, ovviamente rivisitati per l’occorrenza.
Gli incaricati individuano i soggetti più idonei al “lavaggio del cervello” e li pongono nelle condizioni di mettersi al servizio di Dio per ragionevoli motivazioni. Nella seconda fase, quella dell’incanalamento, l’imam mette a frutto la sua conoscenza dell’animo umano e, soprattutto, della volontà di rivincita delle masse di immigrati nei confronti “dell’Occidente oppressore”, invitando i giovani prescelti a una più profonda conoscenza dell’Islam votata a una loro crescita culturale in previsione di una società futura fondata unicamente sulla Sha’aria.
L’identikit stilato in base alle informazioni in possesso del Centro anti-terrorismo dell’Onu, evidenzia che il tipico foreign fighter è un maschio giovane, privo di un buon livello d’istruzione e di un lavoro decoroso, senza una specifica collocazione nella società in cui vive, frequentatore dei social network e reclutato da personaggi che non appartengono necessariamente a gruppi armati, ma ne sono fiancheggiatori esterni o quantomeno simpatizzanti, per l’appunto, gli autoproclamati imam.
Sono opera loro le successive fasi dell’istruzione e dell’induzione finale fornite ai “volontari” che vengono addestrati ad operare nell’ombra grazie alla conoscenza della Taqyyia, una riconosciuta pratica di dissimulazione, che offre a ogni mujahed la possibilità di mimetizzarsi, nei territori degli apostati o miscredenti con il distacco dall’aspetto esteriore come primo passo verso l’approccio con la società che s’intende infiltrare.
Per tale scopo il militante renderà il suo aspetto e i suoi atteggiamenti dissimili da quelli che caratterizzano i musulmani praticanti, almeno per quegli indicatori che noi occidentali crediamo fondamentali, quali la barba incolta alla maniera del Profeta, simbolo dell’essere arabo considerato sacro, i pantaloni non aderenti al terreno, ritenuti impuro per il musulmano osservante, le tuniche e i copricapo, sino ad arrivare al callo frontale (goza) sfoggiato dagli integralisti che attesta la loro completa dedizione alle orazioni quotidiane.
Ogni aspetti pratici nella vita quotidiana di quella che si può considerare come un’occidentalizzazione forzata del mujahed, prevede una sorta di esenzione dagli obblighi della Sha’aria, poiché finalizzata al raggiungimento dell’obiettivo della Jihad.
La riconosciuta capacità dell’Isis è stata quella di alterare il pre-esistente fenomeno dell’emulazionismo, affiancandolo a un utilizzo più oculato delle cellule preconfezionate e votate al martirio. Un sintomo di carenza di volontari votati al suicidio, ma anche una scelta strategica responsabile che intende continuare a mantenere alta la tensione in Occidente con attacchi di basso profilo in attesa del momento propizio per riproporre attacchi su vasta scala.
Il “Lone Wolf’s Handbook”, disponibile sulla piattaforma Telegram già da tempo, fornisce semplici e dettagliate istruzioni per l’incendio di veicoli, la propagazione d’incendi boschivi e l’abbattimento di edifici con esplosivi, oltre che a compiere azioni di omicidio/strage eseguite da attori solitari spinti dallo spontaneismo spinto alla Jihad.
In particolare, facendo esplicito riferimento ai numerosi recenti incendi/danneggiamenti di chiese in Francia, nel quinto capitolo vengono fornite dettagliate istruzioni per la demolizione di edifici. Il manuale descrive il modo più semplice per eseguire tali attacchi con l’utilizzo dei serbatoi di gas o di propano o utilizzando le tubature per provocare esplosioni o l’utilizzo di inneschi multipli idonei a provocare incendi. Valutati i costi di nuclei preconfezionati dei mujaheddin, l’Isis ha scelto la via più economica, quella del soggettivismo in grado, comunque, di produrre negli occidentali la sensazione di un’occupazione, anche se momentanea, del proprio territorio da parte degli islamisti.
Come già sottolineato, il vero rischio per l’Occidente deriva dall’auto-innescarsi di Lone wolf operanti in piena autonomia con facoltà di prediligere essi stessi luoghi, date e modalità per le loro azioni con l’unica indicazione di rivendicare gli attacchi a nome dell’organizzazione cui si sottopongono attraverso un testamento filmato o dichiarazioni scritte da diffondere sul web per ispirare deliberatamente altri soggetti a condurre azioni simili.
Da notare che negli Stati Uniti, gli attacchi legati a gruppi terroristici stranieri, o attacchi in cui l’autore li ha rivendicati in nome di un’organizzazione straniera, sono stati quasi interamente operazioni terroristiche interne dal concepimento all’esecuzione, come è stato dimostrato con effetti devastanti a San Bernardino, Orlando e New York City. Ovvio che il susseguirsi di atti terroristici che coinvolgono attori locali e solitari non deve indurre a pensare che le organizzazioni terroristiche, i leader, le catene di comando, controllo e comunicazione siano scomparse o siano irrilevanti.
In questo, vari esperti hanno definito il fenomeno come “la gamificazione del terrore”, sostenendo che il terrorismo si è evoluto in una sorta di videogioco del mondo reale, in cui gli estremisti si incoraggiano a vicenda per raggiungere i “punteggi più alti” dell’altro.
Il “Livestream” rappresenta anch’esso una delle ultime espressioni di un’antica tattica terroristica. Un esempio eclatante è rappresentato dall’azione condotta nel 1972, durante le Olimpiadi estive a Monaco, dove un commando di terroristi palestinesi prese in ostaggio nove atleti israeliani. Nelle ore seguenti al sequestro, l’intero Pianeta viveva in tempo reale l’evolversi degli avvenimenti.
I pianificatori dell’attacco avevano correttamente calcolato che la copertura mediatica focalizzata sull’Olimpiade potesse essere utilizzata dai terroristi per attirare un’attenzione senza precedenti sulla loro causa, trasmettendo i loro proclami e generando simpatia, supporto e, soprattutto, nuove reclute.
In conclusione, la tematica dello jihadismo dovrebbe rappresentare un punto cardine per i responsabili della sicurezza di ogni Paese, anche per i continui mutamenti/adeguamenti in seno alle varie entità terroriste che utilizzano qualsivoglia tramite per ottenere la visibilità anelata
Il caso degli itinerari percorsi in parallelo a quelli delle migrazioni, rappresenta una novità non certo inaspettata, soprattutto considerato che la vicina Libia si presta a questo tipo di rinvigorimento – ricostituzione dei network del terrore visto il caos regnante nel Paese e del discreto apporto fornito dai jihadisti mercenari arruolati dal GNA con la complicità di Erdogan, quest’ultimo lontano da ogni ottica kemalista e sempre più vicino alla galassia islamista.
La ragionevole conseguenza di tutto ciò sarà il deciso rafforzamento dei movimenti islamisti, con il rischio più che concreto di una ripresa delle attività anche nel Continente europeo.