L’ascia di guerra in Salento è stata nuovamente sotterrata, almeno per il momento e per quanto riguarda la querelle legata all’espianto degli ulivi. E dire che tutto lasciava presagire che i lavori sarebbero proseguiti e che la protesta contro l’espianto degli ulivi nel cantiere Tap di Contrada San Basilio, vicino Melendugno, sarebbe continuata dura e veemente come e più del primo giorno.
La sospensione dei lavori
I lavori erano stati sospesi il 6 aprile dal Tar del Lazio dopo il ricorso presentato dalla Regione Puglia, la quale aveva sostenuto la possibilità di un danno permanente al terreno e ai suoi ulivi nella più totale incertezza delle autorizzazioni amministrative fornite dal Ministero dell’Ambiente, in particolare in merito allo spostamento dei 211 alberi e all’assenza di una Valutazione di Impatto Ambientale (Via) complessiva sul progetto del microtunnel. La Via esiste finora solo relativamente alla cosiddetta “Fase 0”, ossia l’espianto degli alberi e il reimpianto degli stessi presso il vicino terreno di Masseria del Capitano.
Sospensione durata tuttavia fino al 20 aprile, quando lo stesso Tar aveva sentenziato che “il ministero dell’Ambiente è titolare della facoltà di controllo in ordine al rispetto delle prescrizioni previste nella Valutazione di impatto ambientale e la Regione Puglia è solo ente vigilante”. In altre parole, il Tar riconosceva la superiorità del Ministero dell’Ambiente sulla Regione nella decisione delle procedure da seguire ed osservare e sulla validità della VIA, dando di fatto il via libera ai lavori il giorno stesso e generando l’immediata reazione dei manifestanti No Tap, che a partire dal mattino successivo hanno iniziato a raggiungere il presidio di fronte ai cancelli del cantiere, per protestare e possibilmente impedire l’espianto e il trasferimento delle piante già zollate e sradicate.
L’accordo tra Comune e azienda Tap
Una bomba sociale pronta a esplodere, disinnescata solo due giorni più tardi (il 22 aprile) grazie all’accordo stipulato tra il sindaco del comune di Melendugno, Marco Potì, e il country manager dell’azienda Tap, Michele Mario Elia, nel corso di un vertice tenutosi presso la Prefettura di Lecce, che prevede sostanzialmente la sospensione dei lavori fino a ottobre. Una mossa che, seppur fatta per venire incontro alle richieste della cittadinanza e quindi evitare quella che rischiava di trasformarsi in una vera e propria rivolta di popolo, potrebbe paradossalmente diventare un boomerang di immagine per la stessa Trans Adriatic Pipeline. Se infatti tutto questo mira a evitare il carico di rischi e proteste che il passaggio dei camion e l’ingente presenza delle forze dell’ordine in assetto antisommossa porta inevitabilmente dietro, dall’altro lato però Tap implicitamente smentisce l’urgenza nel trasferimento degli alberi. Un’urgenza che circa un mese fa (28 e 29 marzo) aveva portato a disordini e scontri con i manifestanti, a cui le forze dell’ordine avevano risposto forzando i blocchi stradali e caricando tutti quelli che si opponevano al passaggio degli automezzi.
A conti fatti peraltro sarebbe stato rischioso, se non pressoché impossibile per Tap completare i lavori entro la fatidica data del 30 aprile, visto che la Valutazione di Impatto Ambientale del 2014 impedisce qualsiasi tipo di lavoro all’interno della stagione turistica, e il 30 aprile segna proprio l’inizio della stessa, che durerà fino al mese di ottobre. Una strategia che mira quindi a tranquillizzare gli animi.
La protesta continua
Sul lato ‘No Tap’ però la protesta continua. Cinque mesi sono in fondo molti per tentare di bloccare i lavori del gasdotto attraverso altri metodi, o quantomeno chiarire alcuni aspetti riguardo la costruzione del microtunnel e dell’impianto di spinta (che sorgeranno proprio a contrada San Basilio), a partire dalla mancanza di una Valutazione di Impatto Ambientale sull’opera complessiva e sulle singole fasi successive allo spostamento delle piante. Senza contare la lettera inviata al Presidente della Repubblica da parte di 94 sindaci del Salento per bloccare i lavori: un fronte che rappresenta, di fatto, poco meno di un milione di persone, che diventano un fattore di pressione politica e psicologica non indifferente.
La battaglia continua. D’altronde, cinque mesi sono sufficienti per combattere (e vincere) un’intera guerra.