Quarant’anni fa le armi che permisero la fuga di Cesare Battisti le fece entrare una donna nel carcere di Frosinone. Era il 4 ottobre del 1981 quando una ragazza bionda, con i capelli a caschetto, complice del terrorista dei Pac, varcò il portone del penitenziario di via Cerreto stringendo tra le mani un pacchetto avvolto da una busta di plastica.
Era domenica, giorno di colloquio con i detenuti.
E in quel pacchetto c’erano le pistole per consentire la fuga a Battisti, ma anche a Luigi Moccia, un camorrista, figlio di Gennaro Moccia, fondatore dell’omonimo e potente clan di Afragola.
Una fuga che per il terrorista rosso sarebbe durata quasi quarant’anni.
Una busta di plastica, una complice, il colloquio della domenica.
“Mezzucci” ormai soppiantati dal progresso.
Progresso che non disdegnano neanche i criminali a quanto pare.
Perché da quella domenica di quarant’anni fa ne è passata di acqua sotto i ponti.
E pure qualche drone sopra le carceri. “Cicogne 2.O” portatrici non di neonati ma di armi.
Ma questa volta, a differenza di quarant’anni fa quando “Battisti fuggì senza che i complici sparassero un colpo”, così almeno si racconta, nel penitenziario si è sparato.
E sarebbe arrivata proprio con un drone all’interno del carcere la pistola che il detenuto napoletano di 28 anni, domenica scorsa, avrebbe puntato in faccia al poliziotto della penitenziaria per farsi consegnare le chiavi delle altre celle minacciandolo di morte.
Poi raggiunte le celle di altri detenuti, napoletani e albanesi, che nei giorni scorsi lo avrebbero minacciato e non solo verbalmente, avrebbe sparato all’interno tre colpi.
Dopo gli spari l’uomo, che possedeva chiaramente in modo illegale anche un telefono cellulare, avrebbe chiamato il suo avvocato, che lo convinceva a consegnare l’arma.
Ma prima di farlo il detenuto avrebbe ingoiato la sim card del suo telefonino.
Non ci sarebbero stati feriti.
“Io ormai non mi stupisco più di nulla. In carcere può succedere di tutto”, duro il commento di Francesco Laura, vicepresidente dell’Uspp, sindacato di Polizia penitenziaria. “Questo episodio gravissimo lo testimonia. I detenuti la tecnologia la conoscono e la usano per i loro scopi, come sembrerebbe sia avvenuto in questa circostanza con l’introduzione della pistola tramite un drone- conclude Laura- la Polizia penitenziaria, invece, deve contrastare la criminalità a mani nude, in perenne sofferenza di uomini e di mezzi necessari a mantenere livelli di sicurezza accettabili”.
Intanto, il ministro Cartabia ha inviato il capo del Dap, Dipartimento di amministrazione penitenziaria, Dino Petralia, al carcere di Frosinone.
E la cosa sa un po’ di stalla chiusa dopo che sono scappati i buoi.
Ma questo è.
Mentre l’uso della tecnologia nelle carceri, come sottolineava il vicepresidente dell’Uspp, sembra valere solo per i carcerati.
Il taser, la pistola elettrica, infatti, per gli agenti penitenziari rimane una chimera.
Chissà se qualche poliziotto magari riuscirà a farsela consegnare con un drone.
E tra il serio e il faceto potrebbe essere un’idea visto che chi dovrebbe dotare questi servitori dello Stato di mezzi per la loro difesa personale, ma anche per sedare le risse tra detenuti garantendone l’incolumità, continua a far orecchie da mercante.