“È italiano, è giovane, ha fatto il militare. Questo conta”: si erano infrante su queste poche parole le sue speranze di ritrovare la libertà. La polizia militare lo aveva arrestato a Cabramatta, una trentina di chilometri a sud est di Sydney, tre mesi prima, nell’ottobre del 1940. Ma già nelle settimane e nei mesi precedenti, gli uomini in divisa si erano presentati alla sua porta tante volte per interrogarlo. In quella zona allora rurale del New South Wales, Giuseppe Vincenzo Panetta ci era finito per caso, seguendo il sogno di una vita migliore. Due anni prima si era imbarcato in terza classe sul transatlantico Esquilino assieme al fratello: partivano da Martone, minuscolo borgo arroccato sulle colline dello Jonio, destinazione Australia. E se a casa restavano gli affetti (Giuseppe aveva moglie e quattro figli, tutti rimasti in Calabria in attesa della chiamata), in quell’isola così strana, a 15 mila chilometri di distanza, c’era il suo futuro. Un futuro che l’ingresso in guerra dell’Italia contro l’impero britannico aveva messo in discussione. «Sono venuti ad arrestarmi, ma nessuno di loro mi ha detto perché. Mi hanno chiesto dove lavoravo, dove vivevo e con chi, ma nessuno mi ha mai letto le accuse per cui venivo arrestato».
Sono passati tre mesi dalla sera in cui lo hanno arrestato e trasferito nel campo di detenzione di Hay e l’internato è riuscito a presentare domanda di rilascio al tribunale militare che si occupa degli stranieri. Panetta non parla ancora inglese e al suo fianco c’è un connazionale che tenta, anche lui con qualche difficoltà, di tradurre le formalità bizantine di quella corte che siede di fronte a lui. In Italia era un “mastro” muratore e falegname, ma in quell’ufficio militare di Sydney non è altro che l’ennesimo enemy alien a cui verrà respinta l’istanza di rilascio. «Sono venuto in Australia per lavorare – racconta ai giudici – perché in Italia non guadagnavo abbastanza per mantenere la mia famiglia. Sono arrivato qui grazie alla chiamata di mio zio e appena avrò denaro sufficiente farò arrivare anche mia moglie e i miei figli». La sua storia è simile a quella di tanti che come lui sono finiti senza prove nei campi disseminati nel bush australiano, ma ai giudici che lo interrogano, paradossalmente, non interessa troppo la sua vita in Australia: loro vogliono sapere di quando si trovava in Italia. «Si ho fatto il militare quando avevo 21 anni – risponde Panetta, che di anni ormai ne ha 33 – tre mesi di addestramento in artiglieria e poi il resto della leva a riparare dormitori e caserme. Facevo il muratore. Non sono mai stato iscritto al partito fascista, non mi interessava».
In effetti Panetta non ha mai preso la tessera del partito e quella scelta aveva finito anche per pagarla, ma i giudici non gli credono e su quel tasto insistono parecchio. «Nessuno mi ha mai chiesto di iscrivermi, e io non sono mai andato a cercarli – racconta ai giudici – non avevo niente da spartire con i fascisti. Prima di venire in Australia avevo anche chiesto al sindaco del mio paese di poter partire per l’Etiopia, ma la mia richiesta fu respinta perché non avevo la tessera del partito. Mi disse che se volevo partire, avrei potuto farlo come soldato, ma che senza la tessera non mi avrebbero mandato come semplice colono». Non era un fascista Giuseppe Panetta (così come non erano fascisti migliaia degli internati nei campi), né una minaccia: era un lavoratore e in testa aveva solo il pensiero di fare un pò di soldi per farsi raggiungere dalla famiglia. La sua colpa era di essere giovane, in salute e di provenire da un paese lontanissimo ma in guerra con il paese dove si era rifugiato per scappare dalla miseria. «Pur non essendoci alcuna prova di attività fasciste del soggetto – annota a verbale J.D. Holmes, rappresentante della pubblica accusa in nome del ministero della guerra britannico – egli ha vissuto nei sei mesi precedenti all’ingresso in guerra dell’Italia a casa di un iscritto al partito fascista (un conterraneo per cui Giuseppe Panetta lavorava e che gli aveva concesso, compreso nel salario, l’uso di una brandina dove dormire, ndr). E se è vero che il padrone non è tenuto a dare spiegazioni ai propri operai sulle proprie attività politiche – dice il pm – lui non poteva non sapere. Abbiamo davvero poco materiale per attaccare lui o il suo comportamento in Australia, tuttavia il soggetto ha quella nazionalità (italiana, ndr), è giovane e ha prestato servizio militare. Questi, signori, sono gli unici argomenti che occorre sottolineare».
Nessuna prova, nessun testimone, né delazioni contro di lui: l’Italia e l’Australia – i due mondi opposti, teatro della vicenda degli enemy aliens – erano in guerra tra loro e questo era sufficiente. La domanda di scarcerazione presentata da Panetta fu respinta come migliaia di altre in quel periodo e l’uomo rimase internato a Hay fino all’estate del 1943. Poi il trasferimento in un campo di prigionia a Alice Spring, sotto il sole soffocante del deserto degli antipodi, fino all’estate del ’44 quando Panetta ritrovò la libertà in cambio dell’impegno, ben retribuito, a lavorare per un anno alla costruzione della ferrovia che avrebbe collegato quelle regioni desolate alle coste dei territori del nord. Durante quegli anni in cattività e con condizioni di vita spesso difficili, Giuseppe Panetta (come tanti altri detenuti) non si perse comunque d’animo e provò a rendere utili quegli anni che la guerra, pur non essendo mai stato un soldato, gli aveva sottratto. Sfruttò le sue doti d’ebanista per costruire mobili di pregio da rivendere ai civili e agli ufficiali del campo, mettendo da parte una piccola fortuna. Quando tornò a Sydney fu in grado di richiamare la sua famiglia in Australia e il campo di prigionia così divenne, col tempo, solo uno sbiadito ricordo. Un ricordo, doloroso, di quando il paese che gli darà nuova dignità, aveva provato a togliergliela, trasformandolo da innocuo migrante a pericoloso enemy alien.