“L’avvocato non deve giudicare il suo assistito, altri sono chiamati a questo compito. Il suo ruolo fondamentale, indipendentemente da chi assista, sia chi è accusato del più abbietto dei crimini, che la vittima dell’altrui delitto, è quello di assicurare a chi assiste la miglior tutela dei suoi interessi e diritti, onde far sì che la decisione del giudice sia conforme a giustizia. Sempre però curando gli interessi, che per il difensore debbono essere prioritari, del proprio assistito”. Maurizio Scuderi è il legale di Igor Trotta, l’uomo che a fine gennaio ha spinto una donna sotto un treno della metro B a Roma. La vittima, una peruviana di 47 anni, a causa dell’incidente ha perso una mano. Da subito sono emerse le problematiche psichiche del responsabile, rinchiuso in carcere, che adesso dovrà affrontare un processo. L’avvocato di Trotta, parlando con Ofcs.report, ha spiegato quali sono le difficoltà oggettive che incontra un legale nella difesa di un simile caso.
Quale può essere la linea difensiva da approntare in un caso come questo?
“Questo caso, al di là dell’impatto emotivo che ovviamente provoca, tecnicamente non presenta particolari difficoltà. Quando non ci sono dubbi sull’esistenza del fatto e sull’individuazione del responsabile, è intuitivo comprendere come non vi siano questioni, né di ordine tecnico, né interpretativo, da affrontare.
In questo caso siamo a parer mio in presenza di tre tragedie.
La prima, che riguarda l’incolpevole vittima, e cioè la poveretta che si è trovata, da un momento all’altro e senza aver in alcun modo partecipato, neppure inconsapevolmente, a vedersi stravolgere le vita, subendo danni di gravità che travalica il fatto materiale e che si riverbereranno sulla sua esistenza e su quella dei suoi familiari.
La seconda, che riguarda il poveretto che ha compiuto un gesto, solo in apparenza di minimo spessore criminale, nel senso che dare una spinta non è in sé un gesto di particolare violenza od efferatezza, ma lo diviene per le circostanze in cui si è verificato, e che però ciò ha fatto nell’assoluta inconsapevolezza della valenza della sua azione.
La terza, che riguarda l’intera collettività che, da questo drammatico evento, realizza l’esistenza, oltre a quelli noti, di altri pericoli, quale quello di trovarsi a subire le conseguenze del gesto di una persona non in grado di percepire, non già la semplice antigiuridicità della sua azione, ma persino l’essenza stessa di quel che ha fatto, e che rende tutti, indistintamente, potenziali vittime di chi si trovi in condizioni di squilibrio psichico.
Venendo alla domanda, posso dire che il difensore deve assistere l’indagato onde garantirgli la corretta applicazione delle norme e quindi, nel caso di Igor Trotta, che sia riconosciuto il suo stato di incapacità, con conseguente dichiarazione di non imputabilità, non potendosi nel nostro rdinamento, non già condannare, ma neppure sottoporre a processo, chi al momento del fatto non si trovava nelle condizioni di capacità richieste dalla Legge.
Ovviamente quanto ho appena detto vale in quanto opinione del difensore, perché nel concreto questo verrà stabilito dal giudice, che deciderà anche alla luce della perizia del perito che ha incaricato, che è in questo caso uno dei più noti e affidabili specialisti della materia, e cioè il professor Stefano Ferracuti.
Al di là di questo, qui si apre però la vera problematica in quanto, se pure è facile convenire tutti sulla giustizia del principio per cui nessuno può esser giudicato se incapace nel momento in cui ha compiuto un atto, il vero problema che ne discende è quali misure e cautele debbano, o meglio, possano essere adottate nel caso in cui effettivamente, come ritengo avverrà in questo caso, l’indagato non sia imputabile.
Purtroppo, nel nostro ordinamento, in conseguenza di interventi normativi frutto più di disparate ragioni politiche, filosofiche, sociologiche, umanitarie e via dicendo, che pragmatiche e soprattutto tecniche, la scelta adottata è stata quella di chiudere gli istituti di ricovero in cui venivano custodite le persone in situazioni di squilibrio mentale, e quindi pericolose sia per sé che per gli altri, e comunemente conosciuti come “manicomi”, così producendo un vero e proprio vuoto, non potendo certamente esser colmato dal servizio sanitario nazionale che non è strutturato per sopperire a così delicate e gravi problematiche.
La successiva chiusura anche dei “manicomi giudiziari” (dove venivano custoditi, e per quanto possibile curati, i soggetti che per il loro status psicologico erano considerati pericolosi per la collettività perché resisi responsabili di fatti delittuosi, e che però non era stato possibile neppure processare, proprio in ragione del loro status mentale), ha definitivamente compromesso la situazione. Il perverso effetto scaturito è che, per curare la malattia mentale di chi abbia commesso crimini (e richiamo l’attenzione su un dato, parliamo in questi casi di delitti in massima parte connotati dalla violenza fisica) l’unica, chiamiamola “medicina”, è rimasta quella della detenzione in carcere.
La strada corretta da seguire per affrontare questa problematica passa pertanto, a mio avviso, attraverso la creazione di strutture sanitarie psichiatriche che, lungi dal ricalcare la precedente esperienza dei famigerati manicomi, possa però garantire sia la collettività che gli stessi malati.
Certamente non si può pensare, nei casi di particolare gravità della malattia, e ce ne sono non pochi, intendendo riferirmi a quelli connotati da incontenibile violenza, di risolverli con le belle parole che lasciano il tempo che trovano, e sono invece indispensabili trattamenti idonei a scongiurarne l’esplicitarsi.
Non sono uno psichiatra, e non sta quindi a me indicare quali possano essere i mezzi o i trattamenti, ma certo, solo seguendo il buon senso, ritengo siano indispensabili strumenti adeguati, in certi specifici casi, anche di natura coercitiva e/o sedativa”.
Quali possono essere, se ci sono, le responsabilità di terzi, ad esempio del servizio sanitario che lo aveva in cura, e come si può effettivamente far conseguire un risarcimento alle vittime?
“In questo caso, salvo il doveroso e imprescindibile approfondimento che la situazione impone, e sempre senza voler invadere campi di competenza di altri professionisti, in via del tutto astratta e ipotetica, è teoricamente possibile l’esistenza di responsabilità, in quanto, sulla base del materiale probatorio acquisito, si è accertato che, poco prima dell’evento, il signor Trotta si era recato al centro sanitario che lo assisteva da tempo, dove gli era stato somministrato un farmaco.
È però doveroso anche, prima di solo pensare ad addebitare responsabilità a chicchessia, verificare in profondità se il farmaco assunto quella mattina, possa esser stato realmente causa, o almeno concausa, del successivo comportamento.
Ove dovesse risultare una tale influenza, dovrà poi accertarsi, e con il massimo rigore, la sussistenza, o meno, del nesso di causalità tra la somministrazione del farmaco e la successiva azione, non potendosi apoditticamente concludere che l’assunzione del farmaco sia stata la causa dell’azione lesiva.
Riguardo al risarcimento dei danni subiti dalla vittima, che personalmente, per la perdita di una mano, ritengo irrisarcibili, ove dovesse emergere una responsabilità di terzi, questi sarebbero certamente tenuti a farsene carico.
Sicuramente, Igor Trotta, che vive in questo stato da più di venti anni, che non lavora, non ha beni o proprietà, e che sopravvive solo grazie alla mamma, e a una minima pensione di invalidità, non è, e mai potrà, essere nelle condizioni di risarcire alcunché.”
Nello specifico, il caso Trotta ripropone la problematica delle conseguenze fisiche e psicologiche delle vittime dei reati cosiddetti comuni e sui risarcimenti connessi. Si è affrontato, e in caso positivo come, questo problema?
“Esiste, verrebbe da dire solo in via teorica (date le pesantissime limitazioni all’accesso, le esclusioni di figure delittuose produttive di danni tra le più frequenti e, non ultime, le difficoltà di conseguire un effettivo ed esaustivo risarcimento), un fondo per tali finalità.
In esecuzione di una direttiva europea, é stato istituito, con la legge 7 luglio 2016, n. 122, che ha unificato i precedenti fondi (vittime della criminalità organizzata e dell’usura), ed è stato chiamato con il solito ostico linguaggio burocratico, tanto caro a chi le norme le scrive, “Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive, dell’usura e dei reati intenzionali violenti”, con una dotazione di euro 2.600.000,00, a decorrere dall’anno 2016.
Credo che già la sola indicazione della dotazione possa far comprendere a chiunque quale possa essere l’effettiva portata di questa, chiamiamola misura di salvaguardia.
Il Legislatore, molto “preveggente” potrebbe ironicamente dirsi, già nella legge istitutiva ha infatti previsto che (nel caso che io però definirei fisiologico), di indisponibilità di fondi che, coloro che sono stati ammessi, ma che non possono esser risarciti per l’esaurimento della dotazione, e cioè quasi tutti, potranno ricevere le somme non percepite negli anni successivi (ovviamente senza indicarne il numero), e però, senza interessi, rivalutazioni ed oneri aggiuntivi (al contrario diciamo di quando è il contribuente a dover pagare).
Chiunque è in grado quindi di comprendere la ragione per cui ho affermato che solo sulla carta sia stata rispettata e data esecuzione alla direttiva comunitaria, per cui la previsione esiste, ma è strutturata in modo tale da precluderne una reale ed effettiva applicazione.
Per chi avesse la curiosità di vedere come funziona, e cioè condizioni di ammissione, limiti, esclusioni e quant’altro, basterà visitare la pagina dedicata nel sito del ministero dell’Interno”.
In casi come quello di Trotta, non c’è un contrasto tra l’obbligatorietà dell’azione penale e la sua inutilità, vista l’evidenza delle condizioni psichiche dell’indagato? Che senso ha, in casi del genere, parlare di obbligatorietà?
“Questo è un discorso troppo lungo da poter esaurire nello spazio di una semplice intervista.
Diciamo che, la tanto richiamata, soprattutto dai media, obbligatorietà dell’azione penale, che, in modo pappagallesco, ripetono, come litanie, parole, espressioni e concetti, senza soffermare neppure un attimo l’attenzione su quel che dicono, è, a mio avviso, un’espressione sintetica che afferma un principio, ma che assolutamente non significa quel che vien fatto credere a chi legge. E mi spiego meglio. L’obbligatorietà dell’azione, consiste nel dovere per l’inquirente, e quindi per il P.M., di procedere all’avvio di un procedimento penale, allorché sia portato alla sua attenzione un fatto costituente reato.
Se si riflette solo per un attimo su questo, ci si rende conto che, eccettuati ovviamente i delitti più eclatanti e di immediata percezione per chiunque, anche senza esser laureati in giurisprudenza, come l’omicidio, il furto, la rapina, l’atto terroristico, solo per richiamarne qualcuno, in realtà l’attribuzione di rilevanza penale a un fatto è di competenza del P.M. Sarà quindi lui, a seconda della sua personale opinione, a decidere se un fatto costituisca, o possa costituire, un reato, e decidere conseguentemente se disporre l’iscrizione nel registro degli indagati. Pensiamo ai delitti di natura finanziaria, o societaria.
È sempre davvero così palese la differenza tra il mero illecito, l’irregolarità e il reato?
Chi, o meglio cosa, nel senso di quale meccanismo, garantisce l’Ordinamento da possibili storture?
Non voglio far polemiche, e le evito, ma magari, riflettendo su qualche fatto di recente cronaca, qualche domanda me la farei”.