“Premesso che, ormai da mesi, le aggressioni gli agenti di Polizia Penitenziaria le subiscono ogni giorno e noi dell’Uspp lo denunciamo costantemente, questi atti di violenta protesta e di rivolta si stanno verificando per diverse cause, l’ultima delle quali è riconducibile agli effetti prodotto dal contenuto del DPCM 8 marzo 2020”. Francesco Laura, vice presidente Uspp, Unione sindacati polizia penitenziaria, commenta le numerose rivolte in carcere che si sono verificate negli ultimi giorni. Il bilancio delle sommosse è pesante e la polizia penitenziaria chiede al governo di rivedere il sistema carcerario ormai al collasso.
A quali cause si riferisce in particolare?
“Gli agenti di Polizia Penitenziaria sono in numero insufficiente rispetto alle reali necessità e sono sprovvisti di adeguate dotazioni strumentali che potrebbero contribuire a rendere più sicure le carceri. La popolazione detenuta ristretta negli istituti penitenziari è in numero superiore alla capienza regolamentare. L’attuale modello custodiale, che prevede in parecchie strutture le “celle aperte” per la maggior parte delle ore diurne, con una più blanda sorveglianza del personale di Polizia Penitenziaria, che non ha carattere di staticità ma è di tipo “dinamico”, certamente non aiuta a tenere sotto controllo la situazione con la massima fedeltà. Se a ciò uniamo la situazione determinata dal coronavirus, ecco che tutto diventa più complicato”.
In che modo la situazione si è complicata?
“Il DPCM 8 marzo 2020, nel tentativo di fare prevenzione rispetto al contagio del virus Covid-19 ha previsto, tra le altre misure, anche quella di svolgere i colloqui visivi in modalità telefonica o video, anche in deroga alla durata attualmente prevista dalle disposizioni vigenti. In casi eccezionali, può essere autorizzato il colloquio personale, a condizione che si garantisca in modo assoluto una distanza pari a due metri. Inoltre, la lettera u) dell’articolo 2 del DPCM raccomanda di limitare i permessi e la libertà vigilata, in modo da evitare l’uscita e il rientro dalle carceri, valutando la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare”.
Queste misure non sono state accolte con favore dai detenuti?
“Pare proprio di no, visti i disordini che si sono succeduti. Se a queste giuste limitazioni, si aggiunge una campagna che è stata fatta nei giorni scorsi da parte di qualcuno per utilizzare l’emergenza sanitaria in modo tale da riproporre misure deflattive delle carceri, quali l’amnistia o l’indulto, il quadro si delinea con una cornice più chiara. Insomma, se a un detenuto gli innesti il tarlo nel cervello della possibilità di poter uscire dal carcere e poi questo non si verifica e, addirittura, si vede limitare i colloqui con i suoi familiari, credo che sia intuibile che la sua reazione non sarà pacifica”.
Dunque le misure adottate dal Governo sono giuste?
“Il carcere è un mondo a parte. Se ad un cittadino imponi di non fare una cosa, pena una sanzione, il cittadino rispetta quella disposizione, per evitare il peggio. Per la mia esperienza personale, se la stessa imposizione la rivolgi ad un detenuto, che si trova in uno stato di restrizione della sua libertà personale perché già sanzionato, devi spiegargliela, devi accompagnare quel divieto o limitazione con un’opera di paziente informazione sulle motivazioni che hanno determinato quella decisione. Le decisioni possono essere considerate corrette, perché finalizzate a diminuire il rischio di contatti fisici tra chi è fuori dal carcere e chi è dentro, ma sarebbe stato opportuno procedere con gradualità e con una comunicazione efficace da parte di chi è preposto al mantenimento dell’ordine e della disciplina interni alle carceri”.
Cosa bisognerebbe fare allora?
“Occorrerebbe parlare con i detenuti. Spiegare loro che queste misure servono ad assicurare la loro tutela sanitaria, quella dei loro familiari e quelle di tutti coloro che lavorano negli istituti penitenziari, non solo il personale di Polizia Penitenziaria, ma anche gli altri operatori penitenziari, il personale sanitario, quello delle ditte di manutenzione e di approvvigionamento e via dicendo. Bisognerebbe dialogare preventivamente affinché siano chiari per loro i propositi del Governo e siano possibili ed efficaci le misure intraprese. Mi auguro che la situazione torni presto alla normalità, una normalità che ricordo però non è rosea proprio per le ragioni che ho espresso all’inizio, ma che è sempre migliore di quella catastrofica a cui stiamo assistendo in queste ore.
Quali sono, nel dettaglio, i punti critici delle carceri su cui bisognerebbe intervenire?
“Il primo risiede nel mutato modello custodiale, a seguito della sentenza Torreggiani della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 2013 che ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani (CEDU). Per effetto di questa sentenza, i detenuti in carcere hanno molta libertà di movimento nelle sezioni detentive, restando fuori dalle stanze detentive per gran parte della giornata, e questo genera l’ingiustificata aspirazione a rimanere sempre più tempo al di fuori, anche oltre l’orario consentito, con le conseguenti resistenze dei detenuti alle sollecitazioni degli agenti ad osservare le regole penitenziarie che sfociano non di rado in diverbi, aggressioni verbali e violenze. Il secondo è determinato dalla presenza in carcere di soggetti affetti da disturbi psichici sottoposti a misure di sicurezza detentive, che non dovrebbero essere ristretti negli istituti penitenziari. Infatti, a seguito della definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari ove prima erano reclusi, avvenuta completamente il 31 marzo 2015, per effetto della legge 30 maggio 2014, n. 81, gli stessi sarebbero dovuti essere ospitati nelle R.E.M.S. (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive). Queste strutture, dipendenti dalle ASL del Ministero della salute, non hanno i posti letto sufficienti ad ospitare gli oltre 1.500 soggetti interessati e, quindi, laddove non risulti possibile ricoverare gli stessi, l’Amministrazione penitenziaria è costretta a trattenerli nelle carceri ordinarie, senza l’adeguata copertura sanitaria dei medici specialisti in psichiatria, psicologia e del restante personale infermieristico di competenza delle strutture sanitarie. Da ciò deriva che l’impatto gestionale ricade prevalentemente sul personale di Polizia Penitenziaria, che non è adeguatamente formato a svolgere correttamente questo delicato ruolo e spesso si trova ad affrontare situazioni di criticità senza possedere le giuste conoscenze e gli strumenti idonei per fronteggiarle.
Il terzo fattore è ovviamente rinvenibile nella mancanza di agenti rispetto al numero che sarebbe necessario per presidiare le sezioni detentive ed assicurare la copertura di tutti i posti di servizio interni. La falcidia della dotazione organica, avvenuta per gli effetti della legge Madia, ha ridotto la complessiva pianta organica del Corpo di polizia penitenziaria di 4.000 unità. Malgrado questa riduzione, l’attuale dotazione organica risulta ancora deficitaria di circa 4.000 unità complessive. Il quarto fattore risiede nel sovraffollamento della popolazione detenuta. Negli istituti penitenziari per adulti, a fronte di una capienza regolamentare di 50.478 detenuti, ne risultano presenti oltre 63.000. Questo dato, comparato a quello del carente personale di Polizia Penitenziaria in servizio, esprime un chiaro sbilanciamento che rende difficile mantenere inalterati alti livelli di sicurezza e assicurare compiutamente l’ordine e la disciplina interni”.
Occorrono, dunque, urgenti interventi legislativi e operativi che servono, nell’immediato, a fronteggiare l’escalation delle violenze subìte dal personale del Corpo di polizia penitenziaria?
“È necessario che il Governo introduca norme specifiche che stabiliscano opportune contrazioni all’accesso dei benefici previsti dall’ordinamento penitenziario e, soprattutto, è indispensabile un inasprimento delle pene detentive per chi commette reati contro il personale di Polizia Penitenziaria nell’esercizio delle sue funzioni. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria deve al più presto emanare specifiche regole di ingaggio di carattere generale relative agli interventi operativi della Polizia Penitenziaria, valide per tutte le strutture penitenziarie italiane, a cui il personale deve attenersi per contrastare efficacemente il fenomeno delle violenze poste in essere dai detenuti. Sono necessarie adeguate dotazioni strumentali che consentano di affrontare gli eventi critici violenti, di cui al momento la Polizia Penitenziaria è sprovvista, come, ad esempio, il taser. Occorre dotare il personale anche di dash cam e body cam per riprendere gli interventi operativi che si eseguono in queste circostanze, al fine di evitare strumentalizzazioni ovvero accuse di maltrattamenti o, peggio ancora, di tortura da parte di detenuti. La presenza di una totale copertura di video sorveglianza nelle zone detentive, inoltre, sarebbe fondamentale per dissuadere e prevenire episodi di soggetti facinorosi. Terminata questa fase di emergenza, è auspicabile un ripensamento dell’attuale modello custodiale, che così com’è oggi non funziona, occorrono investimenti finanziari per la realizzazione di altre strutture penitenziarie, se quelle odierne non sono in grado di ospitare regolarmente i detenuti ristretti e non consentono il corretto svolgimento delle attività afferenti al trattamento rieducativo, richiamato dall’art. 27 della Costituzione. Servono più poliziotti penitenziari per garantire la sicurezza e occorrono più operatori penitenziari specialisti dell’area trattamentale, analogamente sono indispensabili anche le figure professionali ammnistrativo-contabili, spesso sostituite dal personale di Polizia Penitenziaria, che già risulta carente per lo svolgimento dei propri compiti istituzionali”.