“La Polizia penitenziaria non ha bisogno di conoscere l’Islam anche perché noi siamo cristiani e orgogliosi di esserlo”. Donato Capece, segretario generale del sindacato di Polizia penitenziaria (Sappe), perché è contrario alla nomina da parte del ministero della Giustizia di Youssef Sbai, ex vice presidente dell’Unione delle comunità islamiche in Italia, come docente di islamologia nelle scuole italiane di Polizia penitenziaria?
“Innanzitutto abbiamo bisogno di corsi di lingua straniera: in primis l’arabo poi il francese (molto parlato dai nordafricani) e l’inglese. Solo comprendendo la lingua riusciremo a impedire o reprimere i reati commessi da questi soggetti. Servono anche dei tavoli strategici di analisi in funzione antiterrorismo attraverso i quali formare gli agenti a osservare, intervenire e poi riferire alle autorità. Il tutto in un’ottica di contrasto alla radicalizzazione e prevenzione non tanto dentro il carcere ma rivolta a quando questi individui ne usciranno, diventando dei potenziali terroristi. Sono queste le priorità. Poi se un agente vuole conoscere meglio l’Islam si rechi nei luoghi di culto a esso dedicati”.
Non crede che una maggiore conoscenza della religione islamica possa quanto meno aiutare gli agenti a individuare un comportamento poco chiaro se non deviante da parte del detenuto?
“Non cambierebbe le cose. Piuttosto Sbai si dedichi a formare gli autoproclamati imam che animano le carceri italiane. Sono 150 i capi religiosi abusivi presenti negli istituti penitenziari su un totale di 11mila detenuti di fede islamica. A oggi risultano 170 soggetti posti sotto attenzione e sorveglianza 24 ore su 24. A questi se ne aggiungono altri 200 seguiti non in maniera continuativa e 278 sono stati sorvegliati prima dell’avvenuta scarcerazione. Una volta usciti dal carcere 35 di loro sono stati sottoposti a provvedimenti amministrativi di espulsione per legami con ideologie jihadiste. Sono numeri che devono far riflettere”.
Il carcere di Rossano in Calabria è noto per aver ospitato negli anni numerosi terroristi al suo interno. Quanti sono i detenuti ritenuti vicini a posizioni jihadiste?
“A Rossano i soggetti a rischio vengono isolati in sezioni ad hoc dove opera personale specializzato per svolgere questo tipo di controlli. Nell’istituto ci sono nove detenuti radicalizzati sotto il controllo costante della Polizia penitenziaria. Il fenomeno è sia circoscritto che isolato così da non creare proselitismo all’interno della struttura. Anche perché quattro di questi carcerati esultarono dopo gli attentati di Parigi e sono ancora pienamente convinti della propria idea”.
Come Sappe avete denunciato nel carcere Spini di Gardolo a Trento grosse carenze di organico. Ci sono altri istituti di pena che presentano tali criticità?
“Trento è solo uno dei tanti dove manca personale di Polizia penitenziaria. Sicuramente possiamo considerare anche altri casi come quello di Rebibbia a Roma, Poggioreale a Napoli o ancora quello di Padova: sono quasi tutti con personale sottodimensionato. Rispetto ai 45.000 agenti previsti nel piano nazionale del 2001 oggi abbiamo 37.000 agenti in servizio. Quindi c’è una carenza di circa 8.000 unità. I nostri agenti lavorano sotto i livelli non medi ma minimi di sicurezza con turni straordinari che vanno dalle 40 alle 60 ore mensili. Spesso gli straordinari non vengono neanche retribuiti”.
Quali altre proposte avete messo in campo per una migliore osservazione e gestione dei detenuti a rischio radicalizzazione nelle carceri?
“Ho chiesto al Ministro di inserire nei futuri bandi dei posti riservati ai giovani, figli di terza generazione, che conoscono l’arabo. La questione è molto seria, se questi detenuti non vengono intercettati e radicalizzati saranno i terroristi del domani”.