Il fenomeno delle baby gang in continua espansione, non è nuovo a una trattazione specifica, ma fa ormai parte delle cronache quotidiane ed agli ordini del giorno dei Governi di ogni paese europeo.
In generale, le gang che operano in Europa e in Italia rappresentano un fenomeno per lo più indotto dalla malavita locale e nazionale. Il reperimento di armi non può essere infatti casuale, ma frutto di una fornitura autorizzata da una gerarchia dei più anziani, conniventi e aggregati a famiglie o gruppi che hanno il predominio su determinate zone del territorio.
L’essenza delle gang è quella di essere fondamentalmente dei gruppi spontanei accomunati da etnia, dipendenza da alcool o stupefacenti, appartenenza a gruppi ultras del calcio.
Elementi distintivi comuni possono essere considerati tatuaggi, orecchini, piercing, musica, vestiario, graffiti, slang, opposizione a ogni forma di controllo dell’ordine costituito. La violenza gratuita propinata a caso è un ulteriore punto di distinzione tra le varie gang. Chi fa più vittime o atti vandalici fini a se stessi, diventa padrone del territorio pur non traendo un guadagno consistente o immediato in termini di denaro.
Le gang sono maggiormente attive nel centro nord Italia, ma la loro presenza è segnalata anche nelle isole maggiori.
La regione Lombardia risulta essere quella con la maggiore influenza di gruppi giovanili e dalla contemporanea presenza di gang straniere, soprattutto magrebine e sudamericane.
Il Research in Brief, realizzato nell’ottobre di quest’anno dalla collaborazione tra Transcrime, il centro di ricerca interuniversitario Università Cattolica del Sacro Cuore, con il Servizio Analisi Criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno e il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità del Ministero della Giustizia, intende superare il vuoto di conoscenza sul tema delle gang giovanili in Italia rappresentando un primo tentativo di fornire una classificazione e una mappatura della loro presenza nel nostro paese.
Secondo il documento, esistono 4 macro-modelli di gang giovanili, “definiti anche in base all’attività sui social dei loro componenti, alle loro caratteristiche socio-anagrafiche e alla ripetitività dei reati commessi.Il più diffuso sui territori è quello caratterizzato dalla mancanza di organizzazione verticistica, composto in maggioranza da ragazzi minorenni italiani tra i 15 e i 17 anni, che infieriscono su coetanei. Traffico di droga, estorsioni, rapine, in case o locali pubblici, sono invece reati, di altra gravità, commessi da un secondo tipo di gang, più diffusa nelle regioni del Sud Italia, che si ispira a o ha legami con organizzazioni criminali strutturate.Più diffuso nel centro-Nord è invece un terzo tipo di banda giovanile che si ispira a gang criminali estere, composto prevalentemente da ragazzi stranieri, di prima o seconda generazione, non integrati a livello sociale. Il quarto e ultimo tipo di baby gang mappato è quello diffuso nelle aree urbane, caratterizzato da una struttura definita e dalla gravità dei reati commessi, pur non avendo legami con la criminalità”.
Il report rappresenta un fondamentale strumento di approfondimento sulla tematica teso a una più prolifica opera di prevenzione.
Un ulteriore punto di approfondimento è quello dell’utilizzo indiscriminato dei social network ed alle “app” ad esso connesse.
Lo sviluppo delle cyber technology ha permesso, infatti, una comunicazione più immediata rispetto anche ad un recente passato, negli anni ’90, dove l’utilizzo dei cd. “telefonini” già di per sé rappresentava un mezzo di collegamento tra individui veloce, relativamente sicuro e di rapido approccio.
La creazione dei cosiddetti “gruppi” su Telegram, piuttosto che su “tic tok”, sebbene vulnerabili dalle intercettazioni delle Forze di polizia, forniscono comunque il mezzo più immediato per poter trasferire l’intera rete di iscritti su altri canali, quantomeno nell’immediatezza delle riunioni o delle scorribande.
Inoltre, sebbene siano rari i casi di rivendicazione diretta delle azioni da parte delle gang, le medesime non sono scevre dal pubblicare video o immagini delle aggressioni, poiché i particolari distintivi delle bande già di per sé forniscono elementi utili a “timbrare” le operazioni compiute.
In generale i leader delle bande giovanili vengono selezionati in base all’età, ai precedenti specifici in reati violenti o contro il patrimonio e, non ultimo, all’appartenenza a famiglie malavitose.
Un ruolo psicologico fondamentale è fornito dall’emulazione delle gesta, siano queste di tipo essenzialmente di violenza gratuita, siano anche, come nel caso dei cd. Shahid palestinesi, da un percorso di indottrinamento che travalica i limiti della violenza fine a se stessa.
Ma anche la fuga dalla routine giornaliera è un punto cardine di questa “generazione di sballati”. Se è vero infatti, che la maggior parte degli aderenti ha trascorsi di disadattamento o di una provenienza da famiglie problematiche, un’altra parte proviene da contesti familiari di rango elevato o, comunque, del ceto medio alto.
Secondo i dati dell’Osservatorio nazionale sull’adolescenza, istituito presso il ministero per la Famiglia, il 6,5% dei minorenni fa parte di una banda, il 16% ha commesso atti vandalici, 3 ragazzi su 10 hanno partecipato a una rissa. Mentre in tante città , come Bologna, Napoli, Milano o Roma, la criminalità di gruppo che lega i giovanissimi è motivo di allarme. “Questi gruppi prendono talvolta come esempio i modelli delle bande sudamericane o, anche, quelli proposti dalle serie televisive- continua Bernardo- Hanno uno o più leader carismatici e spesso si accaniscono contro i coetanei o, comunque, contro chi percepiscono come vulnerabile. Spesso bevono molto e fanno uso di sostanze stupefacenti. Il loro intento è quello di amplificare, divulgandoli sui social, i loro gesti violenti. Quel mix di rabbia e disagio che spinge all’affiliazione al gruppo, attraverso il quale i ragazzi possono esprimere la loro rabbia, molto spesso si sviluppa in contesti familiari privi di mezzi e multiproblematici“. “Le baby gang “seguono spesso uno schema ben preciso- spiega Bernardo- hanno un contatto con la vittima contro la quale usano violenza verbale, poi, violenza fisica, creano terrore e panico. Nelle baby gang c’è un leader, ognuno ha un ruolo, e il gruppo compie reati contro i singoli o contro la città. Gli adolescenti della baby gang abbandonano la scuola, rifiutano le regole e sono aggressivi con gli altri adolescenti e con gli adulti. Di solito le tipologie di reati sono differenti a seconda del contesto sociale di appartenenza”. Per esempio Bernardo evidenzia come “tra i ragazzi del ceto medio borghese, i reati di violenza sono contro la persona o anche rapine finalizzate alla ricerca di oggetti status symbol (cellulari, giubbotti ecc.). Molto spesso la gravità dell’atto commesso è ignorata dai ragazzi, è molto frequente che di fronte alle violenze i genitori o i ragazzi stessi dicano che si è trattato di una ‘ragazzata’”. Ma “dare un significato positivo ad una azione considerata reato dal codice penale, è una delle modalità con cui si esprime il disimpegno morale– evidenzia il medico- Con il costrutto del disimpegno morale lo psicologo Bandura riconosce nei meccanismi di dislocazione e di diffusione della responsabilità la possibilità per l’individuo di non sentirsi responsabile dell’azione commessa, mettendo così a tacere il contrasto tra comportamento agito e standard morali. È come se il reato nascesse improvvisamente senza una progettazione reale”.Oggi “con il supporto della tecnologia, la condivisione aumenta la portata e alimenta maggiormente gli animi- continua Bernardo- Si cerca intenzionalmente la popolarità e questo rappresenta un’ulteriore sfida, una condizione che fa sentire i ragazzi ancora più potenti. Tutte queste aggressioni vengono, infatti, riprese attraverso gli smartphone e condivise nelle varie chat e i profili social. Ormai anche le gang si sono digitalizzate e, spesso, condividono le loro ‘gesta’ sui vari social media creando gruppi appositi che fungono da rinforzo e condivisione di condotte delinquenziali. A volte gli adolescenti utilizzano questi canali per rendere direttamente pubblico il loro operato, anche come sfida aperta alle autorità, e per essere rinforzati dai ‘mi piace’ della rete che li rendono ancora più onnipotenti”. Le baby gang “ruotano intorno al meccanismo della deresponsabilizzazione e dell’effetto branco- precisa l’esperto- perché nel gruppo è come se ci fosse una divisione della responsabilità, la condivisione di ciò che viene fatto aumenta anche la portata e la potenziale gravità delle azioni commesse. Ci si sente meno colpevoli e ciò che viene fatto in gruppo con elevata probabilità non si farebbe mai da soli. La spinta degli altri aiuta e tante volte lo si fa appunto perché lo fanno altri membri del gruppo, non ci si può tirare indietro, significherebbe essere dei codardi e dei vigliacchi. La gang ha una sorta di modus operandi e una sorta di ‘codice’ da rispettare, altrimenti si è tagliati fuori. Si arriva a sviluppare una identità di gruppo che funziona in maniera differente rispetto a quella individuale, in cui ci si riconosce, identifica e si appartiene”, conclude Bernardo”.
In effetti, le baby gang si danno appuntamento su una chat, il più delle volte su Telegram. Questa piattaforma tende a evocare le gesta delle bande ed a scambiarsi i video o i messaggi vocali sulle serate trascorse consumando larghe dosi di droga e alcol concluse, irrimediabilmente, con aggressioni, risse o vandalismi gratuiti.
La forma di pubblicizzazione sui social network genera automaticamente un numero considerevole di consensi, espressi sotto forma di “like” facendo crescere l’autostima e la consapevolezza della propria forza negli autori. Ma l’utilizzo dei social è anche quello di espandere la rete dei fornitori di sostanze stupefacenti e dei luoghi dove è più facile reperire le sostanze “da sballo”.
L’opera di prevenzione delle Forze di Polizia fornisce un utile deterrente per le scorribande giovanili, come nel caso degli arresti operati nei confronti dei rapper “Baby gang”, alias di Zaccaria Mouhib e di “Simba la Rue”, alias di Lamine Mohamed Saida, entrambi di evidenti origini maghrebine.
L’operazione è stata portata a termine a seguito delle indagini riferite alla rissa con l’uso di armi da fuoco avvenuta la notte tra il 2 e il 3 luglio scorsi in via Alessio di Tocqueville, uno dei luoghi privilegiati dalla movida milanese. Le misure di custodia cautelare sono state 11 e sono state disposte dalla Procura della Repubblica di Milano presso il locale Tribunale dei minorenni.
I quattro fermati, ricorda una nota congiunta di Polizia e Carabinieri, erano già stati tratti in arresto nell’ambito delle indagini sulla spirale di aggressioni e ritorsioni tra le gang di “Simba La Rue” e “Baby gang”, unite nella gang di Piazza Prealpi, contrapposta a quella di “Baby Touchè”, provocata da una aspra lotta determinata dalle “rivalità nella diffusione delle rispettive produzioni musicali”.
L’arresto dei due “Trapper” altro non è che l’ennesima puntata di una conflittualità in continua crescita, come dimostrano precedenti operazioni di Polizia seguite ad episodi di reciproca violenza.
Infatti, il rapper Baby Touché, il 9 giugno scorso fu picchiato e sequestrato per 2 ore dentro un’auto e ripreso con video postati in tempo reale sui social.
Ma agli altri 10 arrestati, residenti a Milano, Bergamo, Como e Lecco, vengono contestati anche reati quali sequestro di persona, rapina e lesioni aggravate.
Ai membri delle due gang i magistrati nell’ordinanza che ha condotto agli arresti, che le stesse erano“governate da regole di fedeltà reciproca e di omertà” e si sono rese “protagoniste di reiterati episodi di violenza” seguiti “all’aspra conflittualità determinata dalle rivalità nella diffusione delle rispettive produzioni musicali”.
Sebbene non manchino le risposte dello Stato, i precedenti penali accumulati dai soggetti sottoposti agli arresti, altro non fanno che alimentare i loro curriculum e ad accrescere la popolarità all’interno delle singole gang. Inoltre il sistema carcerario in vigore nel nostro paese, non ostacola, se non in casi limite, la comunicazione all’interno e verso l’esterno dagli istituti di pena, fornendo così una cassa di risonanza per i messaggi di stima, fedeltà ed ulteriore coesione tra i detenuti delle bande contrapposte ed in lotta per il controllo di frazioni di territorio.
In definitiva, non si intravvedono, al momento, soluzioni plausibili ad un problema, quello della violenza giovanile, che si allarga a macchia d’olio e che, con l’immigrazione clandestina, ottiene anche un surplus di adesioni. Infatti, i “nuovi arrivati”, tendono sempre più a rifiutare qualsiasi forma di integrazione, limitandosi a frequentazioni con i pari età già radicati, ma ben lungi dall’essere integrati, sul territorio e a identificarsi nei background dei paesi di origine, formando, così nuove entità destinate a scontrarsi fra loro e con i nativi per la sopravvivenza di ideali sicuramente non nobili.