Il 27 dicembre sono arrivate le lettere di licenziamento per i 1666 lavoratori della sede romana di Almaviva Contact, la storica società di telecomunicazioni, che principalmente svolge attività di call center. Dopo anni di trattative, sfuttamenti, salari al ribasso, scioperi, ricatti e ammortizzatori sociali, per la capitale la storia finisce così: tutti a casa. OFCS ha intevistato Ilaria, una ex-lavoratrice di Almaviva, matricola 394, anche lei licenziata prima di Natale.
Nell’ultima, estenuante trattativa di dicembre 2016 le scelte delle sedi di Napoli e Roma hanno preso strade diverse. Napoli ha scelto altri tre mesi di cassa integrazione, Roma il licenziamento. Pensi fosse l’unica soluzione possibile?
“Penso di sì, per Roma è stato un atto di dignità perchè quello che ci proponevano per rimanere era assurdo. Pagamenti della solidarietà ridotti all’osso, ore di lavoro da fare in condizioni ormai inumane e con un licenziamento sempre possibile: insomma meglio staccare la spina subito. Non si possono giudicare i sindacati perché in quella notte tra 21 e 22 dicembre è stata fatta molta pressione, a termine procedura scaduta e le rsu sono state fatte votare nominalmente con dichiarazione di voto. Napoli ha accettato altri tre mesi di cassa integrazione entro i quali firmare un accordo sulla riduzione dei salari e sul controllo a distanza, Roma ha deciso di chiuderla quella sera. Ti racconto l’ultimo anno di lavoro: ferie imposte, solidarietà al 50% e negli ultimi mesi andavamo in sede con le guardie giurate in corridoio perché si temeva la rappresaglia. Dovevamo chiedere il permesso per andare a lavorare. Un lavoro nel call center che già normalmente ti leva la vita. Adesso si era trasfomato quasi in un pagare per lavorare, io dopo 17 anni di anzianità in Almaviva prendevo ormai neanche 900 euro al mese, altre persone 500…e per arrivare in periferia a via Casal Boccone 188 non ci sono neanche i mezzi, alcune persone si facevano due ore di macchina per arrivare, in pratica ci perdevano di benzina, ma come fai a vivere così?”.
Ma cerchiamo di capire ripercorrendo la storia dell’azienda. Perché proprio i tagli sul call center? Gli utili diminuivano intorno al 2014 ma la famiglia Tripi, proprietaria dell’azienda, è arrivata ad assumere ben 45mila dipendenti.
“Nel 2000 quando sono stata assunta, aprirono le sedi di Napoli e Palermo. Dall’inizio ho fatto lavoro di call center , la cosa che differenziava l’azienda era il numero di addetti (circa 10000 in Italia prima del licenziamento) e i clienti di un certo livello: Tim, Wind, Vodafone, Fastweb, Sky, Eni, Enel, Trenitalia e molte altre. Almaviva è un sistema complesso: solo Almaviva contact è il call center, poi c’è Almaviva spa che è il core business ovvero il reparto informatico, di programmazione. Il call center è sempre stato utilizzato come aggancio per poi vendere ai grandi clienti i prodotti, i software sviluppati da Almaviva stessa. Parliamoci chiaro, del call center in Italia non se ne fa niente: ha tre sedi in Brasile, una in Tunisia, una in Romania e si sta espandendo anche in Asia”.
Quindi c’è stata una delocalizzazione pesante?
“Le commesse pubbliche non hanno regolamentazioni rispetto al costo del lavoro e anche Almaviva faceva un’offerta inferiore al costo degli operatori stessi. L’azienda partecipava con costo medio per operatore ai minimi, quindi andava poi in perdita. Per compensare doveva andare dove il lavoro costava meno. L’azienda è stata disonesta sulle delocalizzazioni: quando le altre imprese delle telecomunicazioni hanno cominciato a trasferirsi all’estero , in paesi extra Ue, il presidente ha fatto una battaglia personale, mettendo come fiore all’occhiello la clausola di non trasferire le proprie attività fuori dall’Italia nello Statuto della Società. Almaviva perdeva fatturato già dal 2008/2009 ma una grande botta è arrivata quando Alitalia preferì assegnare la nostra quota di traffico ad un’altra azienda che svolgeva la stessa attività in Albania. Era una commessa di pregio. Una lotta per non far spostare le commissioni all’estero, ma poi? Anche Almaviva ha delocalizzato!”.
Come andava avanti allora in Italia?
“Solo su Roma eravamo più di 2500 persone: gli ultimi quattro anni li abbiamo passati con contratto di solidarietà. Sono anni che non dichiara bilancio. Addirittura in Calabria aprì una nuova sede a Rende. Mentre metteva in cassa integrazione straordinaria 800 persone a Roma impolpava il traffico nella sede di Rende dove lavoravano colleghi assunti con livelli retributivi più bassi e contratti più precari in modo da aggirare di fatto le delocalizzazioni…Delocalizzava all’interno del territorio italiano stesso dove pagava di meno. Una crescita stratosferica che non corrispondeva assolutamente agli introiti, alle perdite che la dirigenza diceva di avere ogni anno. Sapevamo che appena fossero finiti gli sgravi fiscali, quest’uomo ce l’avrebbe fatta pagare”.
Infatti poi sono arrivati i tagli. Nell’ultimo anno si è trattato di veri e propri ricatti?
“Quella di eliminare il call center romano è stata una sua volontà specifica di Marco Tripi, amministratore delegato di Almaviva Contact: attraverso i suoi reparti commerciali ha cominciato a rifiutare le commesse, a non partecipare ai bandi di gara, a non proporre servizi ai grandi clienti come invece facevamo prima. Negli ultimi quattro anni, noi lavoratori ogni mese rimaneva a casa circa 9 giorni di media di seguito. Ma non puoi fare un altro lavoro, devi essere disponibile a eventuali chiamate. Quindi era alienante, perché sei a casa ma in condizioni lavorative che ti annientano. Maggio 2016 ultimo accordo, tre sono stati i grandi errori sindacali: il primo di non insistere per il re inserimento dei lavoratori in altri rami dell’azienda; il secondo è stato certificare che solo tre sedi erano in esubero (ovvero Roma, Napoli e Palermo, quest’ultima poi sfilata dalla trattativa); poi il non trasferimento delle commesse: in pratica se un cliente grosso lo prendeva la sede di Milano, non si poteva spostare neanche una virgola sulle altre sedi. Cosa che invece poi ha fatto sulle altre città per far risultare Roma un unico grande esubero”.
Che altre condizioni pretendeva l’azienda per mantenere il call center?
“La proposta dell’azienda: far rientrare tutti, stop a esuberi, ma a che condizioni? Averla vinta sul controllo a distanza. Passa sempre sotto silenzio, ma il Jobs Act prevede degli incentivi per le aziende che effettuano il controllo produttività e qualità. Noi lavoriamo sui terminali e mediante l’utilizzo di un server e di un centralino tutte le nostre attività sono monitorate ma non possono essere utilizzate ai fini disciplinari, o di licenziamento, per la legge 300 art.4 dello statuto dei lavoratori, ma anche per la privacy. Quindi con accordi del genere avvallati dal governo i vertici dell’azienda volevano dimostrare di poter accedere a quegli incentivi e controllare il nostro lavoro 24 ore su 24. Con i dati presi dai software sei sempre attenzionato e licenziabile. Non produci abbastanza? Sei fuori. E in Italia questo non può avvenire”.
Oltre a non avere uno scivolo fiscale per il licenziamento o un incentivo o una possibilità di essere reinseriti in azienda, vi sono stati chiesti dei soldi…
“Esatto…Dobbiamo anche ridare i soldi delle nostre ferie! Il problema è che in pratica per un anno siamo stati senza attività lavorativa, quando andavamo in ufficio quasi 100 persone erano chiuse in una stanza senza niente da fare. A dicembre abbiamo fatto un giorno lavorativo. Per ridurre all’osso il lavoro oltre ai nove giorni a casa per la solidarietà ci ha chiesto di usare tutti i nostri permessi e le nostre ferie. Io personalmente devo restituire 460 euro di ferie perché l’Inps non l’ha pagate all’azienda. Oltre il danno la beffa”.
Il settore delle telecomunicazioni conta 80mila lavoratori nel nostro Paese e anche gli altri call center non sono in buona salute. La sicurezza per questo lavoro è messa in pericolo: per i contratti fantasma, per gli sfruttamenti e anche per il controllo dei lavoratori in remoto. Il precedente che Almaviva potrebbe creare con l’accordo con la sede di Napoli, solo rimandato, potrebbe aprire un baratro anche per altri lavoratori. In settimana Ilaria andrà a riconsegnare le cuffie che usava per fare le infinite telefonate, mi dice che spera ancora che la battaglia fatta a Roma per non far passare tutte le condizioni volute non sia del tutto inutile.