L‘amicizia tra Stati Uniti e Arabia Saudita è in una fase delicata. Il rapporto decennale che ha fatto le fortune di Washington e dei principi sauditi potrebbe bruscamente interrompersi. La causa? La recente presa di posizione della Casa Bianca a favore di una legge che consente ai cittadini americani di fare causa al governo saudita per le responsabilità negli attentati dell’11 settembre 2001. Il presidente Barack Obama sembra restio a firmare il provvedimento ma, con le prossime elezioni americane ormai alle porte, il possibile successo di Donald Trump, aprirebbe a scenari catastrofici. Il candidato repubblicano ha, infatti, già dichiarato di voler diffondere i fatti rimasti segreti sugli attentati alle Torri Gemelle, in cui verrebbe confermato un ruolo di primo livello dell’Arabia Saudita nell’organizzazione delle stragi.
L’atteggiamento di Washington, intanto, ha comunque inasprito le difficili relazioni con gli arabi, che già avevano mal digerito alcune posizioni del governo americano, come il mancato intervento militare in Siria e la debole opposizione al piano nucleare iraniano. Atteggiamenti discutibili, vista anche la recente visita di Obama a Hiroshima, con la promessa di lavorare per un mondo senza armi nucleari.
La risposta dell’Arabia è arrivata. Un vero e proprio ricatto economico: Riad minaccia un disinvestimento di enormi proporzioni nel mercato statunitense. I ¾ del denaro saudita sono sempre stati investiti negli Stati Uniti. Circa 700 miliardi di dollari l’anno che non entrerebbero più nelle casse delle banche americane. Il principio di un collasso finanziario. Il solito gioco di potere, che non stupisce troppo se inserito in un rapporto che sa di matrimonio combinato, costruito su menzogne e interessi economici.
Oggi paradiso petrolifero conosciuto ai più, qualche decennio fa l’Arabia Saudita non era altro che un grande deserto. Quando Washington, a cavallo della seconda guerra mondiale, decide di voler conservare il petrolio americano, e non essere più il produttore mondiale principale, inizia a guardarsi intorno. Nascono così le relazioni economiche con gli stati mediorientali. Io investo su di te, e quello che guadagni lo spendi da me. Un circolo in breve tempo diventato vizioso, e che ha creato un (dis)equilibrio economico internazionale costruito sui petrodollari e il mercato delle armi.
Ora l’Arabia, cresciuta, da terra imberbe a potenza economica, rivendica un nuovo livello di indipendenza, anche energetica. Il piano di Riad prevede, nel 2030, di realizzare una quasi totale indipendenza dal petrolio. Il governo saudita sta lavorando sulla cessione di una percentuale delle quote dell’Aramco (la compagnia petrolifera nazionale) e la costruzione di un fondo statale di enormi proporzioni, da dedicare alla crescita sociale del Paese. Fino ad allora, però, l’oro nero è ancora l’asso nella manica.
I progetti energetici sauditi nascondono un dato di cui poco si parla. Quante riserve di petrolio possiede ancora il pianeta? Possiamo ancora costruire l’economia mondiale intorno all’oro nero? Secondo Colin Campbell, direttore dell’ASPO (associazione per lo studio del picco petrolifero) le più grandi compagnie petrolifere mondiali (le sette sorelle figlie della capostipite Standard Oil di Rockfeller) hanno da sempre mentito sulle riserve presenti nelle loro aree d’azione. I produttori sopravvalutano le loro riserve e aumentano così la propria influenza nel gioco economico internazionale.
Un gioco i cui organizzatori hanno in mano le sorti del pianeta e il potere di creare e risolvere crisi economiche con una strategia improntata su una semplice equazione. I due fattori: l’aumento o diminuzione della produzione e il costo in dollari al barile.
Tra gli anni ’80 e ’90, i membri dell’Opec (l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio), sono stati capaci di realizzare/prospettare un aumento della produzione di greggio, senza che ci fosse un aumento del numero dei giacimenti. Un fatto irreale, un gioco matematico che ha ristabilito le quote petrolifere e dipinto una realtà prosperosa. Ma, ben prima del nuovo Millennio, le riserve petrolifere mondiali erano già state spremute e le compagnie petrolifere hanno sempre negato di rivelare i veri dati sulle riserve dei loro giacimenti. Nulla possono le nuove tecniche di estrazione di fronte a giacimenti più profondi e complessi, che prevedono spesso la trivellazione in mare e costano alle compagnie petrolifere cifre esorbitanti. Non esiste più nessun luogo del mondo in cui possiamo sperare di scoprire nuovi giacimenti.
Il mercato del petrolio, parentesi storica più breve di quanto vogliamo ricordare (fino agli anni ’60 la grande maggioranza dell’energia veniva dal carbone), è quindi impantanato nella sua principale fortuna: il bisogno dei consumatori, la domanda di mercato.
Su questa le compagnie e i governi hanno costruito le loro ricchezze, chiudendo gli occhi di fronte ad un commercio che non si è vergognato di causare guerre, terrorismo, fame. La sete di potere è ancora sete di petrolio. Lo stesso Isis, ha puntato con forza sulla conquista dei pozzi petroliferi come mezzo per la sua espansione. Controllare il petrolio significa controllare l’energia. E senza energia non può esistere la politica di nessun Paese al mondo.
Ben prima dell’attentato alle Twin Towers, la Casa Bianca metteva a punto una politica interamente fondata sulla strategia energetica che potesse soddisfare il fabbisogno di ogni americano. (tot barili al giorno). La cecità del governo Bush è arrivata fino all’estremo, nascondendo con vergogna che i finanziamenti americani per l’estrazione del greggio in Arabia Saudita diventavano denaro sonante nelle casse di Bin Laden e Al Qaeda, aprendo la stagione del terrorismo più estremista. E ora la bolla rischia di scoppiare. Gli equilibri dell’area mediorientale restano legati alle sorti dei giacimenti di oro nero, con la colpevole incoscienza di negare come l’età del petrolio, forse troppo breve per essere ricordata, sia ormai agli sgoccioli.