“Penso che tutti dobbiamo capire che la Georgia e l’Ucraina sono nazioni sovrane indipendenti, che hanno il diritto sovrano di scegliere la propria strada. Quindi, solo l’idea che sia una provocazione contro la Russia che la Georgia aspira all’appartenenza, o che l’Ucraina faccia lo stesso, è davvero, molto pericoloso”. Rispondeva così il Segretario Generale Nato, Jens Stoltenber, ad una domanda della BBC, posta a margine del North Atlantic Council in Foreign Ministers del 4 aprile scorso. Il quesito dell’emittente britannica è piuttosto chiaro, magari spigoloso ma non evitabile: l’Alleanza Atlantica ha qualche responsabilità sulle recenti tensioni nel Mar Nero?
Facciamo un passo indietro
Il 1° aprile una task force navale della Nato, formata da fregate canadesti, turche, olandesi, spagnole, bulgare e rumene entrava nel porto ucraino di Odessa, in quel Mar d’Azov che da almeno 400 anni i russi considerano la porta d’accesso al Mar Nero e, quindi, al Mare Mediterraneo. In una fase storica nel quale le tensioni fra Kiev e Mosca sono ancora alte (specie dopo il confronto fra le rispettive marine del novembre scorso) e considerato che da cinque nell’Ucraina orientale prosegue senza sosta il conflitto a bassa intensità fra repubbliche filo russe ed esercito ucraino, l’arrivo della squadra navale ha suscitato più di un mal di pancia fra le torri del Cremlino. Esultanza, invece, a Palazzo Mariinskij, stando almeno al tweet lanciato il 2 aprile dal vice premier Ivanna Klympush che definisce la presenza Nato “un elemento importante per la stabilità e la sicurezza dell’area”.
Area a dire il vero piuttosto vasta: non solo l’Ucraina, infatti, anche la Georgia è motivo di allarme per la politica estera russa. In attesa di aderire all’Alleanza, la repubblica caucasica ospita dal 2010 un Liason Office della Nato, partecipa con un proprio contingente a Resolute Support e riceve assistenza per le operazioni marittime. Nel gennaio scorso, ad esempio, la Sak’art’velos sanapiro dats’va (Guardia costiera) ha preso parte ad una fase di training con equipaggi del Patto Atlantico in funzione anti-terrorismo; inoltre dal 2015 le unità della guardia costiera di Tbilisi si sono ritirate da BLACKSEAFOR, forza multinazionale della quale faceva parte anche la Russia e, probabilmente, ultima realtà di coordinamento militare fra Mosca e le altre nazioni che si affacciano sul Mar Nero. Al di là della Turchia, ormai membro di vecchia data gli stati rivieraschi, fino a tre decenni fa nell’orbita sovietica, sono oggi paesi “avversari” di Putin: Bucarest e Sofia fanno parte dell’Alleanza dal 2004, mentre Tbilisi e Kiev aderiscono al Membership Action Plan (MAP) nell’ottica di di diventare membri effettivi sul breve periodo. E anche l’Azerbaijan ha avviato una collaborazione con Bruxelles…
Non occorre dunque sfogliare l’Atlante per capire che la Federazione è letteralmente circondata sul suo stesso mare nel quale, tuttavia, continua a vigilare una delle più antiche flotte del mondo, creata in epoca zarista per contrastare la potenza ottomana e oggi forte di 45 navi, 6 sottomarini e circa 20 mila marinai. Un consistente spiegamento di uomini e mezzi che, nel 2020, verrà probabilmente rafforzato da unità di ultima generazione come i sottomarini a propulsione diesel-elettrica della Classe Lada, la cui produzione è iniziata nel 2006 e dei quali sono stati da poco varati due nuovi esemplari, il B-586 e il B-587.
A suscitare maggiori timori sarebbero però le batterie di missili costiere che Mosca ha installato sulla penisola di Crimea nel 2017, in particolare gli S-400 sistema d’arma terra aria con gittata variabile da 40 a 400 km capace di individuare e colpire oltre 36 obiettivi alla volta. Già presente da due anni nel porto di Fedosia, il sistema è tornato a far parlare di sé a gennaio (in occasione delle esercitazioni congiunte NATO-Georgia) quando un’agenzia di stampa ucraina ne ha segnalato la presenza a Sebastopoli.
Con ogni probabilità non assisteremo a battaglie navali fra le forze dei due “blocchi”, semmai ad un botta e risposta a colpi di esercitazioni, diplomazia internazionale e diplomazia economica. Al di là delle crisi di Kerc del novembre 2018, quando tre fregate ucraine furono “bloccate” nel Mar d’Azov, la prospettiva di una guerra appare lontana.
Infatti, se da un lato Stoltenberg ha concluso la risposta alla BBC ricordando come “per la Nato e per me e per tutti gli alleati non c’è contraddizione tra deterrenza, difesa e dialogo” e che “crediamo fermamente che finché saremo forti, finché saremo uniti, finché ci adattiamo alle azioni di una Russia più assertiva, rispondiamo a questo, allora possiamo anche impegnarci nel dialogo”, dall’altro il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov ha annunciato che la Russia è pronta a siglare un accordo per la vendita di S-400 alla Turchia. Non una notizia esplosiva, perché da tempo Erdogan “provoca” gli alleati paventando future forniture militari da Mosca che, comunque, difficilmente potrebbe impiegare in quanto la Nato ha precisi standard e protocolli sugli armamenti che vanno scrupolosamente rispettati. Inoltre i famosi missili “Patriot” che Ankara vorrebbe acquistare per la difesa dello spazio aereo sono già presenti in Turchia, armando infatti batterie spagnole e italiane (4° Contraerei “Peschiera” di Sabaudia) sul suolo anatolico nell’ambito del progetto di difesa comune. Le parole di Erdogan e Peskov non devono dunque spaventare: con i confini del Patto Atlantico che vanno dalla Polonia alla Bulgaria, con la task force nel Mar d’Azov e con le partnership georgiano-ucraina e azera in corso l’influenza della Federazione è decisamente ridimensionata e le uniche carte che le restano da giocare sono l’allargamento della partnership internazionale e l’intervento in conflitti a bassa intensità. Due campi nei quali Putin si è dimostrato molto capace: nel primo, dialogando con il governo di Kabul e con i talebani in vista di una normalizzazione dei rapporti dopo la fine di Resolute Support e con Pechino coinvolta nella maxi esercitazione “Vostok”; nel secondo sostenendo Assad in Siria e i ribelli filo-russi a Lugansk e a Donetsk così da assicurarsi un’influenza costante nelle due aree. Ma guerra no: il Mar Nero resta un teatro caldo solo per la diplomazia.
di Marco Petrelli