Con la destituzione definitiva della presidentessa Park Geun–hye, si apre un nuovo, ennesimo, capitolo della turbolenta storia attorno al trentottesimo parallelo.
Non che la decisione della Corte costituzionale della Corea del Sud sia arrivata inaspettata: dopo la messa in stato di accusa promossa dal Parlamento (una procedura, giuridicamente, molto simile a quella della costituzione italiana), che aveva anche visto il voto favorevole del partito della presidentessa, il verdetto del giudice delle leggi, dopo mesi di attesa, è finalmente arrivato, tanto scontato quanto dirompente, nella notte scorsa.
Abuso di potere, estorsione, corruzione, rivelazione di segreti di ufficio sono le imputazioni che hanno decretato la fine, ingloriosa, dell’esperienza governativa della prima donna presidente della storia della Corea del Sud, figlia, tra l’altro, dell’ex dittatore filo-statunitense Park Chung-hee. Ma oltre alle accuse di rilievo penale nella decisione ha pesato il morboso (e mai definitivamente chiarito) rapporto con la potentissima sciamana Choi Soon-sil, la vera causa del declino della Park.
Proprio mentre la Corea del Nord di Kim Yong-un continua senza sosta i test nucleari in aperta sfida al potente vicino sudcoreano, la nazione si trova ora di fronte ad una delle peggiori crisi costituzionali degli ultimi decenni: gli scontri con la polizia locale e la resistenza di un piccolo focolaio di protesta filo-governativo che hanno addirittura provocato due vittime rappresentano solo la punta dell’iceberg di una serie di incognite nell’immediato futuro delle più potenti e ricche nazioni asiatiche. Ma la crisi, da tempo, non è solo istituzionale.
Il tracollo dei dati dell’industria è infatti solo una delle conseguenze pratiche del rapporto segreto, quasi dalla patologica sindrome di Stoccolma, che contraddistingueva la presidentessa con l’amica-consigliera-sciamana.
Da giorni le più grandi multinazionali del Paese sono state colpite da un crollo verticale in termini di fatturato, e soprattutto, di credibilità; basti guardare all’arresto di Lee Jae-yong, vicepresidente e capo del gruppo Samsung, accusato dai magistrati sudcoreani di aver ricevuto l’appoggio del governo nel processo di controllo interno all’azienda in cambio di laute tangenti. Storie simili hanno investito e continuano a filtrare attorno ad altri grandi colossi come Hyundai, Hanjin e Lotte.
Cosa ne sarà del futuro politico di questo strategico Paese che è, ancora, il secondo alleato più importante di Washington dopo il Giappone? Difficile dirlo. Per ora le istituzioni legislative ed esecutive stanno procedendo spedite verso le elezioni anticipate le quali, secondo la legge, debbono tenersi necessariamente entro 60 giorni dalla decadenza dalla carica di presidente. La data più probabile, scommettono a Seoul, è quella del 9 maggio. Lo scontro, acceso come non mai, sarà tra il primo ministro e presidente ad interim Hwang Kyo-ahn, molto indietro nei sondaggi, e Moon Jae-in, capo dell’opposizione avanti del doppio nelle intenzioni di voto rispetto al rivale.
Il tutto, ovviamente, senza contare le provocazioni e gli isterismi del vicino regime comunista di Pyongyang che – ed è piuttosto scontato – continuerà a cavalcare il caos regnante ormai da mesi a Seoul.
Si chiude così, proprio come avvenuto poco tempo fa con un’altra donna al comando, Dilma Rousseff, l’esperienza governativa più controversa del composito panorama delle tigri asiatiche, investite, proprio come nel resto del mondo, da proteste di piazza senza precedenti in grado di destabilizzare non solo gli equilibri interni ma un intero establishment internazionale, composto da sempre più precarie alleanze transoceaniche.