Quali verità nasconde l’uccisione in Congo dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio?
In un precedente articolo pubblicato su Ofcs.report, si faceva menzione delle recenti relazioni (pericolose?) diplomatiche tra Kinshasa (RDC) e Kigali (Ruanda), in ordine agli incontri bilaterali tra loro organizzati per discutere le linee d’azione con cui affrontare le comuni minacce alla sicurezza nazionale. I due governi, guidati da Paul Kagame e Felix Tshisekedi, hanno posto l’accento sulla questione della sicurezza regionale, in particolare del Kivu, quale motore per un futuro sviluppo sostenibile dei due paesi. Durante le fasi preparatorie degli incontri, i delegati dei due paesi hanno sempre sostenuto che “… l’attuale quadro bilaterale è una sfida per gli stranieri, in particolare per l’Occidente, che sono contrari alla collaborazione tra Ruanda e Repubblica Democratica del Congo, ma siamo venuti qui per dire loro che siamo un tutt’uno e che non vogliamo più conflitti tra noi …”.
Ora, a una settimana dalla morte dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio e della sua scorta personale, il carabiniere Vittorio Iacovacci, avvenuta lunedì 22 febbraio, quale altra verità potrebbe nascondersi dietro questo atto efferato?
Lunedì 22 febbraio, il ministero degli Interni congolese riferì che i servizi di sicurezza e le autorità provinciali non furono informati in anticipo del viaggio del diplomatico italiano, motivo per cui non hanno potuto fornire la scorta speciale, necessaria per viaggiare in sicurezza in questa zona di paese decisamente instabile e pericolosa. Ma fonti del PAM, il Programma Alimentare Mondiale, affermano invece che la percorrenza era avvenuta su una strada precedentemente autorizzata e sicura.
È pur vero che in una nota verbale dell’Ambasciata italiana in Congo del 15 febbraio 2021 – prot. 219 – diretta al ministero degli Affari esteri della Repubblica Democratica del Congo, si anticipava dell’intenzione del diplomatico di recarsi nella regione orientale del paese. Nella nota si legge che veniva chiesto alle autorità congolesi di permettere l’accesso all’aeroporto di N’djili di Kinshasa all’ambasciatore Luca Attanasio, al console Alfredo Bruno Russo, al carabiniere Vittorio Iacovacci e all’assistente Floribert Basunga, motivando il viaggio verso Goma e Bukavu dal 19 al 24 febbraio. Sempre nella nota si auspicava il rispetto della convenzione di Vienna, secondo cui i bagagli dei diplomatici non potevano essere ispezionati – verosimilmente per celare le armi del carabiniere in scorta all’ambasciatore.
Con sorpresa, il ministero degli Affari Esteri del Congo, il 27 febbraio, ha emesso una comunicazione specificando di aver ricevuto la precedente nota del 15 febbraio dall’Ambasciata italiana, ma asserendo che il diplomatico italiano aveva poi personalmente disdetto il viaggio annunciato in precedenza e che avrebbe fatto inviare per questo una nota di annullamento. Una volta appresa lunedì 22 febbraio la notizia dell’uccisione dell’ambasciatore italiano, l’ufficio del protocollo di stato della Repubblica democratica del Congo si è preso l’onere di verificare, presso l’aeroporto di N’djili, l’effettivo accesso al salone d’imbarco della delegazione italiana, ma gli fu risposto dagli agenti di servizio che il loro imbarco non è mai avvenuto.
Inoltre, a sole tre ore dalla notizia dell’attentato, Kinshasa si affrettò ad affibbiare la paternità dell’attentato alla componente armata del FDRL, le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda, così come confermato in meno di 24 ore anche da Kigali.
Ecco quindi che il mistero si infittisce ancor di più. Che questa frettolosa condivisione di accuse nasconda invece un’altra verità?
FDRL, dal canto loro smentirono in breve tempo, tramite un comunicato stampa, la possibilità di un proprio coinvolgimento nella vicenda, condannando con forza l’omicidio dell’ambasciatore italiano, e richiedendo piuttosto a gran voce un’inchiesta seria e imparziale per appurarne le reali responsabilità. Secondo loro l’attentato si è svolto nella zona definita “delle tre antenne” non lontano da una base delle FARDC e delle milizie del Ruanda, le Forces de Defense Rwandaise (RDF). La vile responsabilità di questo gesto, secondo FDRL, va dunque ricercata nella nota e pericolosa alleanza tra queste due milizie.
Dal fronte ruandese si racconta che alcuni esponenti della stampa, vicini al regime dittatoriale ruandese di Paul Kagame, hanno anche commentato in maniera quasi offensiva la vicenda, scherzando sul fatto che il diplomatico italiano si fosse avventurato in quella regione senza nemmeno avvertire le autorità di Kinshasa.
Sempre secondo le voci, infatti, pare sia risaputo che le milizie vicine al presidente di Kigali da tempo controllano la regione orientale della RDC con il pretesto di perseguire coloro che vogliono destabilizzare il Ruanda, ma dove lui stesso è spesso presente per i suoi rilevanti interessi economici e politici, cosa che vuole tenere ben celata alla Comunità internazionale.
Per non parlare poi delle recenti indiscrezioni arrivate ad alcuni organi di stampa ruandesi locali, dove si afferma persino che l’omicidio del diplomatico italiano sarebbe stata una ritorsione da parte del Ruanda per distogliere l’attenzione della Comunità internazionale appunto, in particolare l’Unione Europea, che da tempo esercita pressioni sul governo di Kigali affinché vengano rilasciati i loro oppositori politici, nello specifico Paul Rusesabagina, ma anche la signora Idamange Yvonne.
Ricordate il famosissimo film “Hotel Rwanda”? Raccontava la vera storia di Paul Rusesabagina, l’uomo di etnia hutu che salvò, nascondendoli nel suo albergo, centinaia di tutsi durante il genocidio del 1994. Paul Rusesabagina venne arrestato alcuni mesi fa con l’accusa (ancora tutta da dimostrare) di aver guidato “movimenti terroristici” ostili al paese, in particolare, secondo le accuse, Rusesabagina sarebbe “il fondatore, leader e sostenitore di gruppi estremisti armati e violenti”. Idamange Yvonne, 42 anni, arrestata qualche settimana fa con l’accusa di “… aver mostrato un comportamento che mescola politica, criminalità e follia su diverse piattaforme mediatiche …”, è invece una popolare attivista ruandese che ha recentemente descritto il Ruanda come “un paese di pecore senza pastore” e che ha fortemente criticato la gestione governativa della pandemia Covid-19.
Le indiscrezioni di cui sopra dicono addirittura che la morte dell’ambasciatore italiano in RDC sia stata ordita dalle milizie RDF, in un’operazione chiamata “Milano”, ideata dal Colonnello Jean Claude Rusimbi, attualmente uno degli alti ufficiali della FARDC, e preparata nei campi militari di Bigogwe. Pare che l’intento dell’ambasciatore italiano in RDC fosse quello di localizzare le fosse comuni disseminate nella provincia del Nord-Kivu, in cui si trovano i corpi delle vittime dei massacri perpetrati dalla RDF attraverso la sudditanza delle milizie regolari RDC a Goma, quelle del National Congress for the Defence of the People (CNDP), l’unità AFDL ed il movimento M23.
Sempre proseguendo nel campo delle ipotesi, e data la corruzione galoppante nel paese, quasi istituzionalizzata, qualcuno di molto vicino allo staff del diplomatico italiano potrebbe aver rivelato le informazioni ed i dettagli in possesso dell’ambasciatore, e inerenti le atrocità allora commesse dall’RDF. Magari non si è trattata di una vera e propria esecuzione (formulata da alcuni), ma verosimilmente è stato un agguato diretto alla sua persona forse con l’intento di un rapimento a scopo intimidatorio, al fine magari di esercitare pressioni sulla Comunità internazionale e distogliere la loro attenzione da quanto ipotizzato nei precedenti capoversi di questo articolo.
I nostri investigatori del ROS forse riusciranno a ricostruire la reale dinamica dell’evento, e forse la si renderà disponibile pubblicamente. Quello che è certo, ad oggi, è che si brancola ancora nel campo delle ipotesi con il rischio che la vicenda venga catalogata nella casistica dei misteri insoluti.